L’hanno trasferito di corsa, alle 3 del pomeriggio, portandolo via dal reparto ortopedia del Policlinico Umberto I per una destinazione che doveva restare segreta. Invece, poche ore più tardi, le agenzie hanno battuto il nuovo rifugio di Daniele De Santis, ora di dominio pubblico, proprio come il primo: l’ospedale Belcolle di Viterbo, quello dove vengono assistiti anche i mafiosi in regime di 41 bis. Un reparto seminterrato blindato, con accessi selezionati (perfino quelli dei medici e degli inferismieri di turno), ospiterà l’ultrà romanista accusato di aver ucciso volontariamente Ciro Esposito. «Facciamo in modo di non avercelo sulla coscienza», si raccomanda uno dei suoi avvocati, Michele D’Urso, che con il collega Tommaso Politi, segue il cinquantenne. A questo punto rappresaglie e vendette sono più di semplici voci. Nelle settimane scorse a Napoli erano già comparse scritte contro De Santis e i tifosi giallorossi: «Ciro non faremo festa finché di Gastone non avremo la testa». Qualcuno aveva anche impiccato al Rione Sanità un manichino con la maglietta della Roma.
Mercoledì il legale non ha fatto in tempo – «Soltanto per un quarto d’ora» – a incontrare De Santis a Roma. La Penitenziaria l’aveva già portato via, poco dopo l’arrivo della salma di Ciro al vicino istituto di medicina legale della Sapienza dove stamattina verrà eseguita l’autopsia. Un atroce incrocio di destini.
«Probabilmente sa che Ciro è morto», spiega ancora D’Urso. Un infermiere, un altro ricoverato, il tam tam dell’ospedale, potrebbero avergli rivelato quello che – secondo il legale – «De Santis sperava non accadesse mai: non abbiamo mai affrontato l’argomento, lui non ha mai chiesto, non si è mai informato, anche se è ovvio che fosse dispiaciuto quando si rendeva conto che Ciro stava male e un po’ più sollevato quando intuiva che c’erano buone notizie». Ora tutto è crollato, il peggio è arrivato. Anche per lui. Dal 3 maggio scorso l’ultrà giallorosso vive piantonato a vista da un agente. Altri sono fuori dalla sua stanza. A Viterbo dovrebbe essere lo stesso. Poco più di mese dopo gli scontri a Tor di Quinto, il gip Giacomo Ebner aveva emesso un’ordinanza per far tornare De Santis all’Umberto I dopo un periodo trascorso nell’infermeria di Regina Coeli. Divieto di guardare la televisione, di leggere i giornali. Come in isolamento, e anche immobilizzato a letto. Uniche visite quelle dei genitori e del fratello.
All’udienza di convalida, sempre in carcere, fu portato in barella. «Non ho sparato», disse al giudice. Da allora non ha più parlato. «Era sotto effetto di sedativi, in precarie condizioni di salute», aggiunge l’avvocato. «Non era in grado di alzarsi, come ancora oggi – spiega D’Urso -: l’infezione alla gamba fratturata quel pomeriggio è seria, ha rischiato un’altra operazione. All’Umberto I c’era un’apparecchiatura che lo faceva stare meglio e gli ha evitato l’intervento. Ora non sappiamo come andrà a finire».
Fonte: Roma.corriere.it
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