Capita nella vita un giorno in cui ti chiedi: ma che ci faccio io qua? A Mazzarri è capitato che ancora giocava. Aveva appena scavallato i trenta. Stava ad Acireale, nei bassifondi della serie C1. Giocava di mestiere, come si dice. Tic e toc. Chi lo prende quello? Tu, ragazzino. Io gestisco la situazione qui in mezzo al campo. Pensava: io deve essere lì. E guardava verso la panchina. Io devo stare lì, seduto a dare ordini, muovere giocatori come pedine sulla scacchiera, altrochè. Che ci faccio io qui? Se a qualche domanda riesci a dare una risposta significa che sei un uomo fortunato. Da quel giorno ha cominciato a ragionare da allenatore. Gli dirà Ulivieri qualche anno dopo: « Walterino, la differenza è dire noi invece di io » . Noi Mazzarri comincia a imbottirsi di vhs, come un drogato in crisi di astinenza. Partite, partite. Altro? Ancora partite. Deve studiare, deve farlo in fretta. Le stipa ovuinque, le vhs nere, quelle cassette che quando entravano nel videoregistratore facevano « clack » . E poi partiva il film. Parte anche il suo, di film. Nel 1996 è a Bologna. Fa l’ombra di Ulivieri. Nelle vecchie botteghe del Medioevo si andava a imparare il mestiere dal maestro. Così Mazzarri dall’Ulivo.
Fa il vice, prima a Bologna e poi a Napoli, infine l’allenatore della Primavera rossoblù.
Nel settembre di quattro anni dopo prende uno spavento di quelli che tagliano il respiro. Un suo ragazzo, Ivan Graziani da Modigliana di Faenza, rischia di morire in campo dopo un contrasto con un avversario. Il cuore si ferma, il ragazzo viene salvato dal massaggio cardiaco di Angelo Ziosi, primario dell’ospedale Maggiore che sta in panchina col Bologna. Mazzarri è impietrito. « Mi sembrava morto » – ricorderà anni dopo – « Sono stati momenti terribili ».
La Redazione
A.S.
Fonte: Corriere dello Sport
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