Il libro dei ricordi, o quello dei campioni, è un dizionario che parte dalla A dell’Argentina e va poi dritto al cuore: perché là dentro, in quelle pagine azzurre, c’è la Storia, c’è un secolo (circa) di funamboli, c’è l’essenza del football e un filo invisibile che parte da Buenos Aires e arriva sino a Napoli, c’è un Dio ineguagliabile e angeli dalla faccia pulitissima che governano le emozioni. Il calcio ante el pipita è in quella rassegna fotografica sfornata dagli archivi, un esercizio mnemomico che va sostenuto con la ricerca: ma Baires, la prima, seducente e ammaliante, è splendidamente sintetizzata da Bruno Pesaola, dalla sua autentica scelta di vita che l’ha trascinato e l’ha radicato al Vomero, nelle 240 partite spalmate in otto anni, nei ventisette gol, nel cappotto di cammello, l’intelligenza sopraffina, l’arguzia incontrollabile, le nuvole di fumo nelle quali perdersi con lo sguardo per rivedere tutte le proprie esistenze in salsa partenopea.
L’ULTIMO PRINCIPE – C’è Diego sistemato oltre le nuvole e poi ci sono i suoi (tanti) fratellini scaraventati in quel san Paolo che profuma evidentemente di casa propria, un macrouniverso nel quale (indiscutibilmente) c’è nascosto qualcosa di familiare, la traccia delle origini o chissà, semplicemente empatia, magari il giardino carezzevole nel quale lasciarsi andare. Pesaola è l’artefice d’una dimensione versatile, l’evoluzione d’una specie che resiste all’usura del tempo, anzi lo ferma, e dopo aver deliziato in campo s’accomoda in panchina; ma in quest’album in cui sono racchiusi gli affetti di ottantasette anni, l’ultimo scugnizzo da «pelle d’oca», l’idolo d’una generazione indiscutibilmente (e nostalgicamente) squarciata da dribbling, veroniche e scatti feroci, resta el pocho, una freccia di Cupido che ancora vola nella fantasia e non conosce ruggine, né rischia di perdersi nel vuoto. Lavezzi è la Resurrezione, è una miscela esplosiva di sensazioni sopite, la nitroglicerina con cui esplodere, ricomparire in Champions, andare all’assalto con la chioma al vento e manco un pizzico di paura.
EL CABEZON – Ma i nonni, gli zii, i padri hanno narrato del «cabezon», un triennio pallido, ben distante dalla solennità d’un Sivori goduto appieno dalla Juventus, però sufficiente per squarciare in due il san Paolo, per schiudere la dimensione onirica d’un «dieci» da favola, per arricchire quell’«hall of fame» d’una Napoli che sa di Buenos Aires e dintorni, che ha tracce (e quante) pure di Daniel Bertoni ed il rimpianto di non essersi goduto appieno l’autentico Ramon Diaz, che pure poggiandosi sulle spalle d’ el pampa Sosa è riuscita a rimetter fuori la testa dal sottoscala post-fallimentare e che con le finte di Juan Carlos Tacchi s’è concessa qualche illusione per combattere la precarietà d’un tempo ormai lontano. Napoli-Buenos Aires è un volo a cielo aperto: don’t cry for me
Fonte: Corriere dello Sport
Condividi:
- Fai clic per condividere su Facebook (Si apre in una nuova finestra)
- Fai clic qui per condividere su Twitter (Si apre in una nuova finestra)
- Fai clic per condividere su Ok Notizie (Si apre in una nuova finestra)
- Fai clic per inviare un link a un amico via e-mail (Si apre in una nuova finestra)
- Fai clic qui per condividere su Pinterest (Si apre in una nuova finestra)
- Fai clic qui per condividere su Pocket (Si apre in una nuova finestra)
- Fai clic qui per condividere su Tumblr (Si apre in una nuova finestra)
- Fai clic qui per condividere su LinkedIn (Si apre in una nuova finestra)
- Altro