Abituato a leggere soggetti e sceneggiature che altri gli sottopongono, evidentemente Aurelio De Laurentiisaveva una voglia matta di scriverla lui una storia tutta sua, e di interpretarla senza comprimari, da solo sulla scena, come quella che si è preso mercoledì in Lega, sempre in primo piano, nel bene e nel male, che poi dal suo punto di vista è solo bene.
A questo gli sta servendo il calcio, oltre che a fare business, perché con ilNapoli se ne fa eccome, anche se a lui non basta, e se Moratti, Galliani e Florentino Perez e Abramovich e tutti gli altri padroni del pallone fossero stati a sentirlo, avrebbe già messo in piedi la Lega europea, e allora addio trasferte a Cesena, Verona o Bari, solo grandi match da una nazione all’ altra, stadi pieni e diritti televisivi da vendere in tutto il mondo per spartirsi tra pochi potenti cifre che con gli accordi italiani te le sogni.
Aveva questo in mente De Laurentiis quando nell’ estate del 2004 restituì il calcio a una Napoli depressa dal fallimento della società che fu di Ferlaino e prima ancora di Lauro, e incapace di mettere in fila quattro o cinque imprenditori che evitassero il disastro dove l’ aveva portata Totò Naldi. Aveva idee innovative e metodi rivoluzionari: ingaggi contenuti, rispetto rigoroso dei contratti da parte di tutti, anche di chi ha fatto benissimo come Mazzarri, giocatori obbligati a cedere i diritti d’ immagine senza sconti a nessuno, nemmeno a Lavezzi, Hamsik e Cavani, gli ultrà tenuti alla larga.
Sette anni dopo la società ha i bilanci in regola e la squadra è in Champions, e chi la governa può vantarsi di questo, di essere vincente come uomo d’ affari e anche come uomo di calcio, pure se di pallone De Laurentiis capiva niente quando è arrivato e ci capisce poco anche adesso. All’ inizio faceva sempre i paragoni con il mondo del cinema: i calciatori come gli attori, i diritti tv e lo stadio come il botteghino.
Poi ha smesso e si poteva credere che fosse un segno di maturità, che non avesse più bisogno di mettere nel calcio anche l’ altra metà della sua vita. Non era così. Il De Laurentiis di oggi non parla più di cinema in rapporto al calcio perché è riuscito a fare del suo ruolo di presidente del Napoli una grande e continua rappresentazione.
De Laurentiis che abbandona i sorteggi della prossima stagione insultando tutti – pure Cellino, che è uno dei pochissimi in Lega a non detestarlo – solo perché il Napoli giocherà con Inter e Milan a ridosso degli impegni in Champions (come se Inter e Milan invece con la Champions non avessero a che fare); De Laurentiis che caccia l’inviato del Mattino dal ritiro di Dimaro perché non gli è piaciuto un articolo; De Laurentiis che scarica maleparole su chiunque lo critichi è la rappresentazione, ormai fuori controllo, de «Il presidente del Borgorosso Football Club» senza l’ immensità di Alberto Sordi e con la pretesa di essere preso sul serio.
Dice Alessandro Siani che nel suo lavoro di produttore cinematografico «Aurelio è una persona molto a modo» e che evidentemente se come presidente delNapoli «qualche volta sbotta è perché ci tiene davvero, è tifoso». Eppure non sembra esserci niente di spontaneo nelle uscite di De Laurentiis. Forse spontaneo lo era tanto tempo fa, quando le sparate le faceva nel chiuso degli spogliatoi, dove poi arrivò a un passo dal fare a botte con Edy Reia, l’allenatore che riportò il Napoli in A.
Ora invece fa tutto in funzione di microfoni e telecamere, come fermare un ragazzo in moto e farsi portar via (senza casco, e si becca pure una lezioncina di educazione civica dal leghista Salvini) «perché ho voglia di tornare al cinema». Sembra un po’ quello che in «Mezzogiorno e mezzo di fuoco», di Mel Brooks, sale a cavallo e dice: “Portatemi via da questo film”.
Ma Aurelio – nonostante qualche suo collega, come Preziosi, se lo auguri – non si farà mai portar via dal mondo del calcio per tornare solo al cinema. Lì, pure se guida un impero, resterà sempre il nipote di Dino. Nel Napoli, invece, De Laurentiis è solo lui.
Fonte: Corriere della Sera
La Redazione
S.D.
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