Juve 85, Napoli 73. La corsa per lo scudetto è finita ieri con la malinconica resa dell’unica squadra che poteva strapparlo ai campioni. Poteva, ma poco o nulla ha fatto per vincerlo. Si è illusa che nel calcio contassero altri valori: il bel gioco più della classifica, la resistenza dei soliti titolari più del parco riserve, i trenta gol di un alieno chiamato Higuain più della qualità media di un organico ampio, il modulo fisso più delle varianti tattiche, un presidente geniale e autoritario più che una struttura societaria, il candore di un club ingenuo e isolato più che il peso degli arbitri nei momenti ambigui di una partita. Finisce a Roma la grande illusione, cominciata per caso in autunno con lo stile Sarri e ricominciata il 13 febbraio 2016, la serata degli inganni più perfidi. La Juve in crisi riceve il Napoli: ha due punti in meno, lascia alla capolista il lusso del gioco ma non lo subisce, tozza e provinciale non si sposta di un centimetro, alla fine piazza il colpo con Zaza ed è prima. Dalla sera del sorpasso il Napoli perde 14 punti. Che gli arbitri abbiano soccorso la Juve nei momenti delicati è cronaca, che la classifica in Italia sia determinata dai guardalinee essendo sempre più diffuso in difesa il sistema del fuorigioco è altrettanto suggestivo, che il Napoli abbia trovato a Udine e Milano sviste se non trappole sembra innegabile. Il campionato però si chiude con un altro mucchio di certezze: la leadership della Juve per continuità d’impegno, equilibrio tra i reparti, varietà di temi tattici, carismatica protezione del portiere Buffon, esperienza del tecnico, capacità gestionale della dirigenza. Si possono spiegare le ultime quattro sconfitte esterne ricordandone gli episodi iniqui e decisivi, quasi mai il Napoli meritava di perdere: quella di Torino con la Juve fu una beffa, i disagi iniziali per ostilità degli arbitri a Udine e Milano con l’Inter determinarono anche lo stop a Higuain. Ieri infine il Napoli ha retto bene con la Roma nel primo tempo, l’ha dominata nel secondo, ma anche ieri qualche errore è stato commesso. Possibile lasciare che Totti, proprio Totti, entri e giochi da solo avviando tre azioni, l’ultima fatale? Due potevano decidere alla fine qualcosa di nuovo. Ma Insigne tenendosi lontano dalla porta chiude un’azione personale destra romanista. L’altro è Totti: trascurato dal Napoli rianima una Roma stremata, è solo anche Nainggolan, quando batte quasi un rigore per la vittoria. Non ha vinto il loquace Spalletti, capace di elevare a romanzo popolare il rapporto con Totti. All’inizio la Roma si raccoglie come la Juve a Torino sperando nelle ripartenze, si accorge che il Napoli è facile da contenere, quindi cambia: avanza in un pressing. Nainggolan, migliore in campo dopo lo straordinario Koulibaly, disturba Jorginho. Sbaglia molto Hamsik favorendo il centrocampo romanista, forte nel terzetto Nainggolan. Keita, Pjanic. Fatica inutile perché è evanescente l’attacco della Roma. Nella ripresa il Napoli ritrova ritmo e comando del gioco, riprendono quota Jorginho e Allan pur logorato da un inizio intenso, Hamsik vede passare sulla sua sinistra il gigante Maicon, regala numeri di grande scuola Higuain, ma l’attacco spaventa la Roma sfinita senza morderla. Sospende anche il pressing. I soliti cambi (Lopez per Allan, Insigne per Mertens) non danno esito contro avversari che sono lì solo in attesa di Totti. Spalletti lo rinvia finché può. Ma Totti arriva, in tempo per dettare il verdetto. Quello che costringe adesso il Napoli a vincere tre partite per difendere il secondo posto. Certo, poteva fare meglio. Soprattutto nei mercati di agosto e gennaio. Ha solo creduto nella Grande Bellezza. Due parole effimere che possono dare nel cinema anche l’Oscar, nel calcio molto meno. centrando gli edifici della Camilluccia, doveva e poteva invece mettere a sedere il gigante Maicon, ormai signore della fascia
fonte: repubblica
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