C’è un’Italia che va oltre le nostre miserie. Da Monaco racconta la sua capacità di risorgere. È quella del calcio, ancora una volta improbabile ma sincera immagine di un paese. Le emozioni sono certificate da qualche cifra, i numeri sono storie vere e mai da sottovalutare nella loro sintesi estrema, che diano un indice di ricchezza con il Pil, lo sfacelo della disoccupazione, il conto progressivo dei femminicidi, la curva dei contagi Covid di questo infame virus, la somma parziale della ferocia nelle carceri e lo squallore delle bugie e della omertà burocratica infranta attraverso il primo numero degli indagati di Santa Maria Capua Vetere. Una sera all’improvviso ci si ritrova a vincere con la Nazionale. Non è l’eccezione di una partita o un magheggio della cronaca. La vittoria sul Belgio è la 15esima fra qualificazioni e fase finale degli Europei. Nessuno aveva fatto meglio di Mancini: la sua squadra con il 2-1 al Belgio registra i primi 90 gol della sua gestione, alla pari di Arrigo Sacchi. Soltanto Pozzo, Bearzot e Valcareggi contano più reti in un secolo d’azzurro, nessuna nazionale ha la stessa varietà di soluzioni offensive, 5 reti sono di centrocampisti, nessun altra squadra come l’Italia in questi Europei. Sembra debole e vulnerabile anche il gigante Lukaku, l’incontenibile gigante bonaccione dell’ultimo campionato. L’ha cancellato Chiellini, spiegando di quale forza fosse dotata la Juventus di una volta, aldilà delle buone stelle che la guidavano. In questa Nazionale che racconta un paese inimmaginato c’è posto per il piccolo Insigne, 162 centimetri di sogni irrisolti, di complessi evidenti e inconfessati, di limiti sofferti di un ragazzo del Sud che dà il massimo del suo talento appena conquista la serenità di chi può esprimersi alla pari con gli altri, che si si esalta se si sente, un ottimo calciatore tra ottimi calciatori, senza il ruolo ingrato di chi da solo deve trascinare al successo una band stonata o un popolo deluso. Insigne che ha fatto abbastanza per non farsi capire né amare è un calciatore che attraverso una squadra di grandi professionisti, gestita da un genio della organizzazione, ha dato un contributo immenso e decisivo alla vittoria, con un tiro che è la pennellata del suo repertorio di artista. Napoli gli ha chiesto troppo, più di quanto potesse dare. Si è conquistato il rispetto degli italiani, merita quello dei napoletani. Ha il diritto di rivendicare i suoi diritti nella richiesta di un ingaggio migliore come De Laurentiis ha il dovere di negagli l’aumento se va oltre le risorse e le convenienze del club. Si può uscire da retoriche e ritrosie della Napoli neomelodica? Chi sa come finirà questo campionato europeo, ma ha già dimostrato quanto possa produrre la mai esibita bravura di Roberto Mancini, allenatore grande nella sua semplicità, autentico nella ingegneristica organizzazione tattica di una squadra fondata sul rispetto dei ruoli, collaborazione reciproca, massima espressione di una professionalità diffusa con qualche lampo di classe. Com’è diverso il calcio di Mancini, se pensi alla straripante esuberanza di Conte che vince da ingombrante protagonista o alla malinconica meteora di Gattuso, il caporale di un plotone forte come altri, ma svilito dalla confusione che lo accompagnava. Un Napoli rozzo nel mescolare ira, sogni e qualche talento.
Fonte: Antonio Corbo per “Il Graffio” di Repubblica
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