Accidenti. Un altro che se n’è andato: un tifoso, non c’è dubbio. Perché i compagni di curva, i Fedayn, i Mastiffs, i Vecchi Lions, gli azzurri duri e puri, sentono il bisogno di ricordarlo con lo striscione necrologio. Al San Paolo è un classico, ma difficile da trovare in tribuna. Evidentemente è nella passione più popolare delle curve (e anche dei distinti) che la nostalgia per l’assenza vuole diventare partecipazione collettiva. Spesso basta un soprannome. E sono anni che mi piacerebbe sapere chi si nascondeva dietro l’appellativo «Secco». Me lo immagino giovane, mingherlino e con lo sguardo malinconico. «Secco vive» ora rappresenta un gruppo del tifo organizzato: è lo striscione dedicato a lui in Curva A. Come se grazie ai suoi compagni di stadio, continuasse a tifare, imprecare, gioire, vivere. Almeno in quello spazio temporale di 90′ che isola chi sta dentro e fuori il San Paolo. Talvolta lo striscione diventa foto, gigante: ragazzi sorridenti nel giorno del matrimonio, bambini vestiti da prima comunione, vengono srotolati sugli spalti pronti a sventolare mesti tra un «Comunque vada» o l’urlo «bastardo» destinato ai portieri ospiti. Oppure si propone come beneaugurante esortazione: «Enzo non mollare» e ti immagini storie di ospedali. Anche Marco Simoncelli, ebbe il suo «Ciao Super Sic» con foto. L’antropologia calcistica dovrebbe aprire un capitolo sul rapporto con l’aldilà che a Napoli raggiunse una sintesi perfetta nel messaggio post scudetto «Che v’avite perso» ai tifosi defunti. Basta che l’arbitro fischi l’inizio e allora la miglior espressione diventa «Kitammuorten» apparso in Champions contro il Bayern.
Fonte: Il Mattino
La Redazione
P.S.
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