“Questi cori li abbiamo sempre fatti, li fanno anche nelle scuole, e adesso vengono a chiudere la nostra Curva” Dovendo scrivere un’introduzione a questo articolo non c’è niente di meglio che parafrasare quanto detto dal capo Ultras della Curva Sud del Milan. Una decina di parole, apparse ai più una semplice giustificazione da parte di chi, dopo anni, è colto con le mani nel sacco. Il più classico dei “Lo fanno tutti, perché proprio io devo essere il colpevole”. Ma è proprio lì, in quell’ingenuo stupirsi da parte dei tifosi del Milan dopo l’iniziale squalifica della Curva Sud, che si nasconde un mostro socio-culturale, cresciuto a pane e ignoranza per 40-50, forse addirittura 100 e più anni. Per chi non l’avesse ancora capito si parla degli ormai decennali cori anti-Napoli che, domenica dopo domenica, si sentono sempre più stridenti in quasi tutti gli stadi italiani. E dalla chiusura della Curva Sud le cose non sono certo migliorate. Ancora cori fuori lo stadio in occasione di Milan-Samp, non puniti, e nel settore ospiti in occasione di Juve-Milan, dove sono stati puniti con la squalifica dell’intero San Siro. Ed ecco, pronte le crociate. C’è chi li reputa sfottò, chi addirittura invoca la libertà d’espressione (leggasi d’insulto), chi si appella a fantomatiche mentalità ultras, senza contare chi taccia di eccessivo vittimismo chi subisce i cori. Ma la cosa che forse risalta più all’occhio è il comportamento di una parte della Curva B in occasione di Napoli – Livorno. La messa in scena di una sorta di autoinsulto, cosa più unica che rara, si dice in nome di una pseudosolidarietà tra Ultras, della difesa della libertà di fare il tifo e anche di intonare i cori-sfottò che si fanno da tanti anni. “La vera discriminazione è la chiusura di un settore”, recitava uno striscione in Curva A. Nulla di più chiaro per spiegare la provocazione compiuta dallo stesso mondo del tifo che si è sempre battuto contro quei cori, come dimostra la coreografia con la gigantografia del Vesuvio nell’ultimo Napoli-Juventus. Un colpo al cuore sentire i tuoi stessi “fratelli” cantare gli “inni del nemico”, tanto che vari tifosi in Curva B hanno subito gridato al fraintendimento. Insomma un calderone pieno di ingredienti, a cui perlomeno bisogna tentare di mettere ordine.
Che l’Italia sia un paese con un forte pregiudizio antimeridionale non è una novità. Non stiamo di certo scoprendo l’acqua calda. E che questo pregiudizio trovi una forma di ostilità aperta nei confronti di Napoli e dei napoletani è ugualmente assodato. Ora, indagare i come e i perché questo pregiudizio si sia formato non è compito nostro, e richiederebbe fiumi e fiumi d’inchiostro. Limitandoci all’ambito sportivo, nessuno però potrà negare come questo pregiudizio si sia travisato dal “fuori” al “dentro” lo stadio. D’altronde, parole di milanista, i cori li fanno anche nelle scuole. Qui arriva la prima domanda. Perché non si è intervenuti prima? Già Maradona in occasione di Italia-Argentina lanciava una celebre provocazione “chiedono ai napoletani di essere italiani per un solo giorno, mentre per il resto dell’anno li chiamano terroni”. Perché chi doveva non ha agito? Forse la risposta è da riscontrare in una più generale libertà lasciata agli Ultras. Negli annali resteranno le immagini del motorino che cade dal terzo anello di San Siro. Una giustizia sportiva (non solo) che ha lasciato una certa libertà, consentendo accanto ai pur diversi aspetti rispettabili della mentalità ultras, il formarsi di comportamenti devianti. Poi, come nella più classica delle tradizioni italiane, si è cercato di riparare in un sol colpo. Tessera del Tifoso, repressione, squalifiche, Daspo, tutto in poco tempo, tutto male e frettolosamente, colpendo a volte anche indiscriminatamente. Tutto per ovviare alle assenze del passato.
Ma in queste assenza si è sedimentato un certo tipo di mentalità. L’insulto al napoletano ha assunto la connotazione di “normale” con centinaia di tifosi (anche non ultras, all’impunito Juventus Stadium si cantano addirittura in tribuna i cori discriminanti) pronti a cantarlo senza cognizione di causa. Non c’è coscienza del gesto, non c’è quasi la concezione dell’intenzionalità dell’insulto. Lo si dice perché si “deve” perché diventa quasi un dovere, un obbligo del tifoso in quanto tale, un “dovere civico” del cittadino-tifoso. Un gesto, maturato in 50 anni di calcio, che viene visto dal tifoso come parte del tutto, al pari di prendere una bibita o comprare la maglia sulla bancarella fuori lo stadio. “Sono solo sfottò” può ad una più attenta visione connotare un pericolo maggiore del “Si siamo razzisti”. E non deve neanche stupire che prima o poi, a furia di sentirselo ripetere, anche le vittime cominciano a crederci. Nella mente del tifoso che subisce l’offesa può anche cominciare ad insinuarsi l’idea che se lo meriti, che in fondo non abbiano tutti i torti. Se fosse grave l’avrebbero già fermato da tempo, o no?
Vi siete mai domandati come mai non sentirete mai un catalano invocare lo straripamento del Manzanarre o un bavarese sperare in un’alluvione che colpisca le zone del Reno. E perché mai un tifoso di Manchester non espone un “Tamigi wash them” in un City-Chelsea di Premier. Maggiore educazione, forse. O forse la consapevolezza della gravità che è dentro quelle parole. Parole, già parole. Proprio le parole, con il loro grande peso, da pochi compreso. D’altronde siamo nel paese che chiama “missioni di pace” il bombardare villaggi sperduti dall’altra parte del mondo, o che nasconde la mattanza sociale sotto il dolce suono anglofono della “spending review”. E così, anche quando, giustamente, si interviene si finisce per commettere errori grossolani. Coniare improbabili neologismi. “Discriminazione territoriale? E cos’è?” Si domanda il tifoso medio da stadio. Si finisce per far passare una legge sacrosanta, come un provvedimento ad hoc. La Uefa parla di razzismo e la Figc si inventa la “discriminazione territoriale”. Così anche un massimo dirigente di calcio può appellarsi, ricorrere a cavilli, a vizi di forma. Il ragionamento loro è semplice: se è discriminazione territoriale non è razzismo. E poi i napoletani mica sono un’altra razza (adesso, perché conviene a loro). Beh, se è per questo neanche gli africani o gli asiatici sono di un’altra razza. Semmai un’altra etnia, se proprio vogliamo essere pignoli. Quindi perché non chiamare le cose col loro nome, chiamiamolo razzismo. Dal vocabolario Treccani: complesso di manifestazioni o atteggiamenti di intolleranza originati da profondi e radicati pregiudizî sociali ed espressi attraverso forme di disprezzo ed emarginazione nei confronti di individui o gruppi appartenenti a comunità etniche e culturali diverse, spesso ritenute inferiori. Fate un po’ voi!
La Uefa ha comunque obbligato la Figc a recepire una sacrosanta norma contro il razzismo (macrocategoria in cui rientra anche il neologismo “discriminazione territoriale”). Per anni noi napoletani ci siamo giustamente battuto affinchè ciò avvenisse. Finalmente, anche se tardivamente, qualcosa si muove. L’Uefa ha tracciato la linea, la Figc si adegua con qualche tentennamento. Sperando che non escano fuori strada, la via è stata imboccata. C’è molto da (ri)fare, molto tempo da recuperare. Diciamo, più o meno, una cinquantina d’anni.
Servizio a cura di Giancarlo Di Stadio
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