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«C’è solo un Maradona», Il Pibe ferma il tempo all’Olimpico. Reina: «A Napoli il calcio è una religione e Diego è il suo Dio»

In Diego tutta: e in quella notte attraversata dalle streghe, ammantata dalla tristezza, ciò ch’emerge dall’Olimpico è un’immagine più unica che rara che narra d’un amore senza limiti ed è proiettato nell’eternità; nell’eredità, il lascito che i figli hanno ricevuto dai padri o anche dai nonni e che espongono con il cuore. «Un Maradona, c’è solo un Maradona» . Roma-Napoli è cominciata da un bel po’ e per qualche minuto quasi non si gioca, o meglio non la seguono: non dalla Monte Mario, dove c’è una macchia azzurra che ondeggia e va su, in cima alle scale, per armarsi di cellulari ultramoderni e catturare uno scatto che resti per sempre; non da quello spicchio d’uno stadio (che stavolta comunque è unito) e applaude e allunga il collo di chiunque sia «ospite» nel settore partenopeo. Come se in campo il pallone avesse smesso di rotolare; o come se per un istante, null’altro avesse avuto un senso: né la contemporaneità di un evento autentico raffigurato da Roma-Napoli, nè il futuro immediato che quella partita determinava. Esisteva, insomma, soltanto quel Dio in terra ripiombato tra di loro e capace di scuoterne i sentimenti e di distogliere l’attenzione, anzi di concentrarla esclusivamente su di sé.

LUTTO – Poi finisce la partita ed è già tutta un’altra dimensione: è la fantasia che s’appropria della realtà e raschiando il fondo del barile di una ironia squisitamente napoletana sceglie di rappresentare il dolore per quel 2-0 e una sconfitta che fa male andando devotamente dinnanzi all’altarino nel quale è contenuto «il sacro capello di Maradona» , di coprirlo con un drappo nero, di simboleggiare l’amarezza persino con il «cartello chiuso per lutto Roma 2, Napoli 0» . Il tempo di elaborare quel doppio destro al mento ricevuto da Pjanic, un gioiello su punizione che va a conficcarsi all’incrocio dei pali di Reina e poi la terribile, imprendibile randellata dagli undici metri; la notte per rileggersi dentro, cogliere la delusione e poi per riattraversare grazie ai fotogrammi della memoria ciò ch’è stato Diego e quel che resterà; e forse anche per sottolineare il tormento del pibe de oro  al novantunesimo, al triplice fischio finale avvertito, quando ormai nulla poteva essere rimesso in discussione: «Come volete che sia emozionato? Il Napoli ha perso…» .

L’UBIQUITA’ – Lo disse pure Reina, appena qualche giorno fa, fresco di tour napoletano e con la percezione nitida d’essere in una città che sa di santuario: «Maradona è in ogni luogo: vai in un ristorante e c’è un cimelio, va in un altro e trovi una foto con dedica; se ne parla sempre: qui il calcio è una religione e lui è un Dio» . E nel centro storico non ci aveva ancora messo piede, Reina. Lì s’è spinto qualcuno, magari anche memore di quel velo di tristezza di Maradona, l’eroe impossibilitato a far ciò che vorrebbe perché intanto gli anni sono scivolati via impietosamente ed indietro non si torna: «E non posso neanche giocare….» . Eh no: i sette anni sono lontani e pure il derby del Sud o del sole, come si chiamava una volta, quando il calcio era in bianco & nero, è sfilato via, lasciando un retrogusto amaro ma senza mai sopprimere il desiderio di non prendersi sul serio, di arrivare dinnanzi a quel luogo «sacro» divenuto intanto (e persino) un’inevitabile tappa turistica, per sintetizzare lo stato d’animo collettivo: «Chiuso per lutto» .

Fonte: Il Corriere dello Sport

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