C’è un uomo solo al comando, la sua maglia è azzurra: e in quel matador che ora scala le vette dell’Olimpo, c’è l’ultimo degli dei calcistici di cui Napoli s’è innamorata follemente. C’è un uomo solo al comando delle emozioni collettive, la sua maglia è d’un azzurro limpido come gli orizzonti (e i sogni): e in quel Cavani che s’è messo a trascinare le folle, a scuoterne le emozioni, c’è l’essenza dell’attaccante moderno nelle cui gesta perdersi, c’è un airone che spiega le ali per arrivare lassù, dove qualcuno lo chiama. Si scrive Cavani e però s’intravede Maradona, la solennità (la sontuosità) d’un talento ineguagliabile, lo splendore d’un geniaccio irripetibile, e però pure il totem abbattuto a suon di gol, con una media raccapricciante (pardon, entusiasmante) degne d’un niño de oro e della sua persino più imponente. Cavani-Maradona è la sintesi d’un raffronto che nasce e muore nelle pieghe delle statistiche, che non ha assolutamente valore comparativo, ma che sottolinea una volta di più la (pre)potenza tecnica ed atletica d’un centravanti a suo modo unico, proiettatosi verso la storia del Napoli.
EL MATAD’OR – La favola costruita che comincia a Boras, in Svezia, e va avanti all’infinito, transitando per la sesta tripletta dell’epopea partenopea d’un inimmaginabile matador si svela complessivamente attraverso settantadue reti in centouno partite che sezionate costituiscono una frequenza da primato e vanno al di là di Diego, dei suoi centoquindici «autografi» in duecentocinquantanove partite: Cavani batte Maradona, 0,71 gol a partita contro lo 0,44 d’un fenomeno (quasi) senza eguali, ma il match va esclusivamente come rappresentazione d’uno exploit da standing ovation.
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