Lo stile Juve è morto da tempo. Se vogliamo fissare una data precisa, è morto il 24 gennaio 2003 quando Gianni Agnelli, il sublime Avvocato, si spense, a 92 anni, nella sua residenza torinese in collina. La morte gli risparmiò la vergogna di Calciopoli, dei due scudetti tolti alla Juve e della radiazione di due alti dipendenti del club. La sua ironia e la sua eleganza avevano “addolcito” una supremazia bianconera a volte insopportabile per quelle ombre di “sudditanza psicologica” degli arbitri, espressione nata negli anni Sessanta, per bocca del dirigente arbitrale Giorgio Bertotto, che sintetizzava il potere che, all’epoca, l’Inter di Moratti padre aveva in Federcalcio, e poi trasferita al club juventino. Lo stile Juve vive appartato nella figura di Giampiero Boniperti, 85 anni, che alla società bianconera seppe dare fedeltà, lealtà, eleganza per oltre quarant’anni, 15 da giocatore, il resto da presidente. Le sue dimissioni dal club furono dettate da una Juve che cambiava, non la sentiva più sua, era un’altra Juve. Dopo, è cambiato in peggio. Una Juve, senza più stile, è nata dai rancori di Calciopoli, da una presunzione di innocenza, da un vittimismo infantile, dalla rabbia della retrocessione in serie B (con ampi condoni su penalizzazione e retrocessioni più dure), dalla faticosa rinascita che per quattro campionati non la vide più primeggiare. Fino a che un giovane presidente e un focoso allenatore l’hanno riportata in alto facendone la squadra italiana più forte. Tanto sarebbe dovuto bastare perché la Juventus del giovane Agnelli e di Antonio Conte riacquistasse la nobiltà perduta, quel senso della misura e dello stile che deve caratterizzare un grande club. Ma il rancore di Calciapoli persiste. Il presidente sfida la Federcalcio sino a citarla per 400 milioni di danni. L’allenatore è un ultrà della panchina. Avere la squadra più forte e vincere non gli basta. Vuole farlo contro il mondo eccitandosi a bordo campo come un forsennato. La sua “carica” viene contrabbandata per grinta, per juventinità di lignaggio, per trance agonistica. La “carica” si trasmette ai giocatori che protestano su tutto e contro tutti. Ne è nata una nuova arroganza juventina che non è quella nobile di un tempo, cui l’Avvocato dava il tocco della sua classe, ma è plebea, provocatoria, pericolosa. E se a un giocatore come Marchisio viene chiesto quale sana antipatia nutrisse, lui risponde “il Napoli” e specifica “dopo le rudi finali di Coppa Italia e Supercoppa italiana”. Aggiungendo: “Quando incontro il Napoli mi scatta dentro qualcosa”. E che cosa gli scatta al virgulto juventino? Come se, poi, fosse vietato agli avversari della Juve di intralciarne il cammino glorioso e di essere, qualche volta, alla pari degli esagerati atteggiamenti bianconeri. Non c’è perciò da meravigliarsi se il giovane Matteo Gerbaudo, diciottenne ragazzo di Moncalieri, abbia insultato il pubblico napoletano al San Paolo nella finale di Coppa Italia Primavera fra Napoli e Juve. La Juve stava vincendo partita e trofeo. Quella rabbia incontenibile fa pensare a una città, Torino, in cui era vietato “fittare ai meridionali”? Perché così crescono i Marchisio, ventisettenne torinese, e i Gerbaudo di Moncalieri. Con questo razzismo strisciante, con questo senso di superiorità rabbiosa, così bene espressa negli atteggiamenti di Conte a bordo campo, con questa selvaggia cattiva educazione. Pazienza se Padovan, dopo il rigore segnato, esulta portandosi le mani alle orecchie mentre piovono fischi dagli spalti e intima ai tifosi azzurri di fare silenzio portandosi il dito al naso, nuovo maestrino della penna bianconera. Un gesto stupido, ma non “insultante e provocatorio” come il giudice sportivo ha sanzionato con tre giornate di squalifica la provocazione di Matteo Gerbaudo. Quella gentile persone che è Gianluca Pessotto, vicedirettore del settore giovanile della Juve, ha censurato Gerbaudo dicendo che “certi gesti non appartengono alla Juventus”. Caro Pessotto, a questa Juventus sì.
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