Ecco la storia di un napoletano nato due volte. In piena guerra. Fra la fine del 1942 e l’inizio del 1943. Tempi confusi, tempi di orrori. Il 4 dicembre 1942 Napoli subì il primo di cento devastanti bombardamenti. Alle 16,45 gli aerei americani sbucarono da Capri e rovesciarono sulla città il loro carico di bombe. I morti furono 359, i feriti più di trecento. Due tram furono colpiti in pieno. Nel porto saltò in aria l’incrociatore “Muzio Attendolo”. Fra lo strepito delle sirene e le corse nei rifugi antiaerei, grotte e cavità, non si viveva più. Tutto divenne assurdo, precario, difficile, mostruoso.
Ecco perché quando Antonio Juliano nacque il 26 dicembre 1942 le difficoltà di quei tempi costrinsero i genitori a denunciarne la nascita l’1 gennaio 1943, la sua data ufficiale all’anagrafe. Dice Antonio: “Non ci ho guadagnato nulla. Ho fatto il militare a 28 anni. A un certo punto richiamarono tutti. Ci trovammo alla Cecchignola. Con Zoff, Riva, Domenghini ero tra i più vecchi. Gli altri avevano vent’anni”.
Un ragazzo che, prima di diventare uno dei grandi centrocampisti dell’epoca che annoverò Rivera, Bulgarelli, De Sisti, fu un micidiale calciatore di strada che infrangeva a ripetizione l’edicola votiva della Madonna dell’Arco in via Ottaviano a San Giovanni a Teduccio, dove viveva, centrata dal pallone che scagliava. “Andammo via dal quartiere dopo un mare di quattrini che i miei pagarono per riparare l’edicola. Giocare a pallone riempiva il cuore e dava la speranza di sottrarsi a un futuro mediocre”. Il padre aveva una salumeria. Antonio rimase a San Giovanni fino ai sedici anni. Poi si trasferì con la famiglia a Poggioreale dove il padre aprì un nuovo negozio di alimentari.
“San Giovanni è stata una scuola di vita – racconta. – Lì ho capito che cos’erano i sacrifici. Eravamo tre figli, io e due sorelle. Non ricordo che ci mancasse qualcosa. Il perché l’ho capito dopo. Non ricordo di avere visto mai mio padre e mia madre andare al cinema. La casa, i figli, il lavoro, questa era la loro vita. A me pagavano pure la scuola privata”.
Il 26 dicembre Antonio Juliano compie 70 anni, ma per l’anagrafe li compie l’1 gennaio. Il napoletano nato due volte. Benvenuto Totonno nel club dei settantenni tra i quali io ormai sono un patriarca, più vecchio di Zoff che ha 71 anni. Non ci crederesti ma anche Mario Zurlini, l’eterno ragazzo che venne tra noi e imparò il dialetto napoletano insieme a Canè, e facevano a gara a chi pronunciasse meglio le male parole e tutto lo slang delle oscenità partenopee, non ci crederesti, ma anche Mario va per i 71, Canè addirittura per i 74. Vecchi ragazzi di un’epoca in cui il calcio era una famiglia. Nascevano simpatie, amicizie, affetti che sono rimasti nel tempo. Il più vecchio è Tonino Girardo che ha 76 anni. Si è ritirato a coltivare i suoi campi, nel Vicentino, dopo avere morso le caviglie a tutti i fuoriclasse delle sue stagioni di mediano-mastino, soprattutto a Gianni Rivera di cui era stato compagno nell’Alessandria. Josè Altafini di anni ne ha 75, ma urla ancora i suoi gollazzi ed è il fanciullone di sempre, battuta pronta, sta perdendo i capelli. Dino Panzanato, 75 anche lui, non lo sento da tempo. Le sue famose gemelline ne turbavano il sonno alla vigilia delle partite. I più ragazzi sono Enzo Montefusco, 68 anni, e Improta 65, Abbondanza 64. Eravamo il club del pallone allegro. Incontrandoci ci meravigliamo degli anni che abbiamo, di qualche acciacco, di molte nostalgie.
Non avrei mai pensato che quei ragazzi degli anni Sessanta potessero mai invecchiare. Li ho sempre immaginati com’erano quando li ho conosciuti. Non ridete: sapete quando mi sono accorto di stare invecchiando? Il giorno che seppi del sessantesimo compleanno di Juliano. Dunque, il tempo era proprio passato. Una vita era passata.
Il petisso va per gli 88 anni. Bruno Pesaola, il cuore più buono del calcio. Luis Vinicio, 81 anni, è in Brasile a svernare. Sono stati i maestri di un calcio diverso. Hanno dedicato la loro vita al Napoli e a Napoli hanno scelto di vivere per sempre. Da giocatori, da allenatori, da napoletani acquisiti, il “leone” di Belo Horizonte col suo linguaggio duro di brasiliano bianco, il petisso con la sua cantilena argentina. Hanno il sangue azzurro. Pesaola ha smesso di fumare da quando, con i polmoni incatramati da un milione di sigarette, è andato incontro alla morte tre volte e tre volte l’ha dribblata.
Totonno Juliano è cresciuto nel rispetto delle regole e degli affetti che sono stati il patrimonio umano e civile delle famiglie napoletane del ceto umile nel dopoguerra. Legami solidi e concreti che, in quegli anni difficili, hanno prodotto una generazione di napoletani esemplari. Alla base del successo di calciatore di Juliano c’è questo retroterra che ne illumina, e ne ha esaltato, il carattere e la fortuna. Anche nel mondo fatuo e stralunato del calcio, Juliano è rimasto fedele alle sue origini solide diventando prima di tutto un campione di serietà e dedizione. Un napoletano atipico, lo descrisse Antonio Ghirelli, perché contraddiceva lo stereotipo del napoletano chiassoso, ruffiano, facilone e sentimentale.
Un giorno, parlando degli anni che erano passati, una sua frase mi colpì in modo particolare. “Mio padre ha vissuto 82 anni. E’ stato un uomo saggio e un educatore esemplare. Devo tutto a lui. Vorrei vivere quanto ha vissuto lui, non un giorno di più, perché io non sono stato migliore di mio padre”. Un ricordo asciutto, bellissimo, senza lasciarsi andare alla commozione.
Questo è Antonio Juliano, questo è sempre stato. In campo giocava un calcio concreto, senza egoismi e teatralità, senza le mattane dei funamboli perché aveva altre grandi virtù, una soprattutto, aveva l’innata dote del condottiero: solida presenza in campo, esempio di passione e impegno. Fu il ruolo che si creò con un duro lavoro e molti sacrifici. Perché sentiva il dovere, lui napoletano fra assi stranieri e giocatori di varie provenienze, di rappresentare Napoli nel modo migliore, alla sua maniera di napoletano atipico: serio e irriducibile difensore della maglia azzurra, “capitano” nel vero senso della parola, e perciò anche paladino, nello spogliatoio, dei diritti e delle attese dei compagni di gioco, ma anche di tutti quanti lavoravano nel Napoli, magazzinieri, calzolai, inservienti, tutto il mondo dello spogliatoio, attento Totonno perché non fossero esclusi dai benefici economici destinati alla squadra. Insomma, un leader. Un fratello maggiore di tutti, ma un fratello che pretendeva impegno e rispetto come e quanto ne dava lui.
Il pubblico non ne apprezzava fino in fondo le qualità. Lui stesso diceva: “Io gioco per il venti per cento di quelli che vengono allo stadio, quelli che vanno al di là delle apparenze”. Un grande matto del calcio, e a suo modo poeta maledetto, Ezio Vendrame, capellone e piedi di fantasia, di un angolo del Friuli, Casarsa in provincia di Pordenone, quando venne a giocare nel Napoli gli dedicò un’ode illuminante: “Oh capitano, mio capitano! Mio esempio, mio orgoglio, mio vanto. E pensare che prima di conoscerti, quando giocavo contro di te, mi stavi proprio sul cazzo! Ti ritenevo arrogante, presuntuoso, superbo. E soltanto io so come e quanto mi sbagliavo. Ora, alla tua grande professionalità così diversa dalla mia potrei anche sputare sopra, ma per la tua grande disponibilità verso i più deboli ti nomino mio capitano per sempre. Me li ricordo bene quei due vecchietti che avevano il compito di magazzinieri e quell’altro che alle nove di ogni mattina ci accoglieva sorridente allo stadio con il caffè bollente e aromatico preparato con la sua Moka. La ‘bassa forza’ li chiamavi tu, ‘gli ultimi’ li chiamo io. E non erano numeri e nemmeno parti d’arredo degli spogliatoi del San Paolo, erano persone che tu con orgoglio hai sempre voluto rendere visibili a tutti noi”.
Credo che questa sia la più bella descrizione di Totonno Juliano, un campione che non ha mai amato le lusinghe, non è mai ricorso a furbizie, non si è mai piegato ai compromessi. E perciò anche un personaggio difficile nell’allegro mondo del calcio tanto da essere scambiato, come accadde a Vendrame, per una persona superba. Forse, c’era in lui anche una innata timidezza, sostanzialmente avaro di sorrisi e di interviste, detestando le “comunelle” e i vantaggi di una disponibilità servile.
“Li ricordo bene quelli che chiamavo affettuosamente la ‘bassa forza’ – dice Antonio. – Gaetano Masturzo che portava il caffè, Franco Di Meo, Scarpitti, Albano. E Beato, il massaggiatore con le mani di acciaio. Ti stringeva la mano da toglierti il respiro e poi ti lasciava nel palmo della mano una caramella. Ricordo la Madonnina che c’era all’ingresso dei vecchi spogliatoi del San Paolo. Quando andavamo in campo, i magazzinieri si fermavano a pregare perché vincessimo. I premi-partita li ho fatti sempre dividere con loro”.
Un altro calcio, una favola di un mondo scomparso. “Ai miei tempi – racconta, – i ragazzi del Napoli si allenavano su un campo vicino al cinodromo di Agnano. Entrare in quella squadra era il primo gradino importante. Fu Giovanni Lambiase, il talent-scout di quell’epoca, a volermici portare convincendo i miei familiari. Avevo dodici anni e, da San Giovanni, dovevo prendere tre autobus per arrivarci”. Da ragazzino della Fiamma Sangiovannese passò al Napoli in cambio di un paio di palloni e di una muta di magliette.
Roberto Lerici, un allenatore che passò per Napoli all’inizio degli anni Sessanta, gli insegnò a “rubare” i segreti dei grandi giocatori. Nel Napoli giocava un grande talento brasiliano, Manuel Del Vecchio. Lerici diceva a Juliano: “Non ti stancare di guardare Del Vecchio, guarda come si muove, come difende la palla, come la calcia, guardalo e imparerai molto”. Imparò, Juliano, con una applicazione costante. Il carattere orgoglioso e la predisposizione ai sacrifici completarono la sua personalità di campione.
“Devo tutto a Pesaola – racconta. – E’ stato l’uomo più importante nella mia carriera”. Il petisso lo fece debuttare in prima squadra a 17 anni in una partita di Coppa Italia contro il Mantova (31 maggio 1962) e poi in serie A contro l’Inter (17 febbraio 1963). Sedici campionati in maglia azzurra, 506 partite, 394 di campionato, 73 in Coppa Italia, 39 nelle Coppe europee. Ventisei gol. A un soffio dallo scudetto con il Napoli allenato da Vinicio. Quel traguardo mancato gli fece sempre pensare che, una volta smesso di giocare, sarebbe rientrato nel Napoli da dirigente per vincere il campionato. Fu così che portò Krol al Napoli e poi Maradona superando i dubbi di Ferlaino per il costo del giocatore. Prima di concludere, a Barcellona, il trasferimento del pibe con un colpo di mano e tutta l’astuzia napoletana, Juliano ebbe dall’Ingegnere un biglietto in cui gli raccomandava di valutare bene l’operazione perché con i soldi che sarebbe costato Diego si sarebbero potuti prendere cinque calciatori. I nomi di quei cinque Juliano non li ha mai voluti svelare. Restano un segreto su un foglietto di carta che custodisce gelosamente.
Il tempo è passato. Antonio Juliano ha smesso da poco di giocare a tennis. Un dolore a una spalla gli ha consigliato di riporre la racchetta in un armadio. Si concede lunghe passeggiate, un po’ di corsa al Parco delle Rimembranze. Ha ancora un fisico invidiabile.
“A San Giovanni torno di rado – dice. – E quando ci vado non riconosco né posti né persone. E’ tutto cambiato”.
Vive in una bella casa a Posillipo con giardino. “Devo ringraziare mia moglie che insistette per comprarla. Alla fine, se devo dire la verità, lei è stata il vero incontro fortunato della mia vita”.
Lei è Clorinda, Clory, una donna assennata, ma sbarazzina se confrontata con l’eterna serietà di Juliano che, poi, quand’è tra amici sa essere allegro e ironico, divertente e pungente, la battuta facile. Il figlio Marco fa l’architetto, Barbara la psicologa l’ha reso nonno, Andrea soltanto si è fatto rapire dal mestiere del padre, calciatore lontano da Napoli.
I ricordi sono tanti. Il titolo di campione europeo con la nazionale del 1968. I tre Mondiali cui ha partecipato (1966, 1970, 1974). In Messico giocò gli ultimi 17 minuti della finale contro il Brasile sostituendo Bertini. Nel 1974 in Germania rimase in panchina dopo avere rischiato l’espulsione dai ranghi azzurri per una violenta sparata a Coverciano, né la prima, né l’ultima, sui giocatori del Sud penalizzati nei confronti dei colleghi che militavano negli squadroni del Nord. “Era così – dice. – A me dicevano: vieni all’Inter, ti difenderanno tutti e giocherai sempre in nazionale. Zoff divenne titolare in nazionale dopo che passò alla Juventus pur avendo debuttato quand’era nel Napoli. Giocava sempre Albertosi. Cannavaro e Ferrara hanno avuto fortuna lontano da Napoli”.
Col Napoli, Juliano vinse la Coppa Italia del 1976. “All’Olimpico di Roma battemmo in finale il Verona allenato da Valcareggi. Vincemmo nell’ultimo quarto d’ora dopo avere dominato. Sugli spalti fu un trionfo di bandiere azzurre. Ricordo l’Autostrada del Sole al ritorno. Noi sul pullman della società e centinaia di auto di tifosi che ci scortavano. L’ingresso in via Marina, dove c’era una gran folla di tifosi che ci aspettava, fu un autentico trionfo”.
Ricorda ancora: “Gli anni più belli del Napoli furono quelli con Vinicio allenatore. Andammo a sfidare la Juventus per lo scudetto. Ferlaino aveva ceduto Zoff e Altafini al club bianconero. Ci castigarono proprio loro due. Fu l’occasione in cui avrei potuto segnare due gol e sarebbe stato scudetto. Battei Zoff con un tiro di esterno destro da fuori area che finì nell’angolino. Pareggiammo così il gol di Causio. Poi un tiro all’incrocio dei pali ancora da fuori area che Dino volò a parare. Altafini a due minuti dalla fine ci condannò”.
Conserva la sua maglia numero 8. Dentro palpita ancora la sua anima azzurra. “Parliamo di cose serie” mi dice a un tratto. Ha già quell’accenno di sorriso ironico che mi prepara alla battuta. Dice. “Ma tu lo sai perché mi hanno sempre chiamato Totonno? Totonno sta per Salvatore, non per Antonio”.
Auguri, Totonno. Ormai è così che ti chiamiamo da una vita. Lui mi guarda e fa: “Ma tu quanti anni hai in questo club dei settantenni?”. “Lasciamo perdere – gli dico. – Sono più vecchio di Zoff che era già vecchio quando aveva vent’anni”.
Fonte: Il Napolista.it
La Redazione
M.V.
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