Il trasferimento dall’albergo al campo. E’ là, sul pullman che porta alla partita, che si dice cominci l’esercizio vero della concentrazione. E poi lo spogliatoio. E il rituale della “vestizione”. Stessi gesti. Sempre quelli. Lenti, misurati, amici. Eppure stavolta sarà tutt’altra cosa per Paolo Cannavaro. Quel viaggio breve in bus sarà lungo quanto quello che porta dall’inferno alla felicità. Dall’inferno dell’infamia, dall’onta d’un mese vissuto da furfante del pallone al rinnovo della patente d’onestà. Lui che s’era sempre proclamato innocente e che non era stato mai creduto. D’accordo, il capitano c’era già a Firenze, ma con mossa intelligente e neppure troppo sorprendente, in verità, Mazzarri gli aveva prenotato solo la panchina. Stavolta, invece, sarà in campo. E col suo orgoglio nato alla Loggetta, a due passi dallo stadio azzurro, mentre infilerà la maglia, ripeterà a se stesso lo slogan della sua difesa: « Chi non ha fatto nulla non patteggia ». Una vendetta personale sul malaffare, sulle malelingue e sulla giustizia imperfetta, anche se nessuno gli risarcirà mai quel mese d’allenamenti e di tormenti e di partite, una di coppa Italia e tre di campionato, giocate da antico tifoso in curva B. Un ritorno al passato pure quello.
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