L’ex allenatore del Napoli del primo Scudetto Ottavio Bianchi ha rilasciato una lunga intervista al Corriere dello Sport, parlando di Napoli, di Maradona, ma anche di calcio in generale. Ecco alcuni estratti:
Lei ha giocato con tre campioni assoluti: Sivori, Rivera e Riva. Mi parla di loro? Sivori com’era?
«Sivori era il talento assoluto, dotato di una personalità eccezionale e di una grossissima dose di cattiveria sportiva. Sapeva di essere bravo, aveva una grande auto considerazione di sé. Allora c’era Pelé e lui non voleva essere secondo a nessuno. Aveva gli occhi dietro la testa, faceva le cose più difficili con una facilità di gioco pazzesca. Un talento naturale, con una personalità schiacciante. Lui voleva essere il numero uno sia in campo sia fuori e anche nei rapporti con i dirigenti lui voleva essere il protagonista».
Si ricorda qualche episodio con lui?
«Lui non era uno che faceva molto allenamento, se non c’era la palla, e anche io ero uno che era nato con il pallone tra i piedi e mi stufavo a correre troppo e a fare gli esercizi. Poi correvo così tanto durante la domenica… Quindi sia lui che io non eravamo degli Stakanov degli allenamenti. Quando scendevamo dal pullman lui era sempre, per scaramanzia, l’ultimo e doveva sempre scendere col piede sinistro. Quando arrivavo anche io all’entrata mi diceva: “Ottavio, io e te non entriamo nell’ingresso atleti, passiamo dall’ingresso autorità”».
Perché lei ha fatto solo due partite in Nazionale? Le ricordo tutte e due, quella con l’Urss e quella con la Romania a Napoli.
«Ci sono stati dei problemi. Allora c’erano i blocchi, c’era il blocco dell’Inter. Era un ambiente molto diviso, diviso tra nord e sud, e le dico schiettamente che non mi è piaciuto. L’ho detto chiaro e tondo ai dirigenti, ho detto guardate se io devo venire perché pensate che sia utile per calcoli geopolitici io rimango volentieri a casa, non è questa la mia idea della nazionale».
Passiamo a quando lei comincia a fare l’allenatore. Anzi, lei comincia facendo il giocatore allenatore…
«Io volevo smettere, ad un certo punto parlo con il commendatore Mazza – presidente della Spal-, e gli dico che io con le mie ginocchia non potevo fare più di un allenamento alla settimana. Lui, simpaticissimo, mi dice va bene, ma io ti pago solo per quelle due sedute. E così andavo a Ferrara solo dal giovedì. Ma io avrei pensato tutto, meno di fare l’allenatore, perché era un ruolo al quale non avevo pensato. Un giorno mi dicono, dopo che Rocco aveva rifiutato la loro offerta, per favore porti avanti lei la squadra, faccia il giocatore allenatore. Da lì ho cominciato una carriera bella, con tanti successi. Anche se ho allenato spesso in società con drammatici problemi finanziari e con transizioni da un presidente all’altro».
Fermiamoci un attimo sul Napoli, mi racconta un po’ quell’esperienza del Napoli?
«Al Napoli io non volevo andare perché conoscevo l’ambiente e sapevo anche, per esperienza vissuta, che noi, anche quando avevamo una grande squadra, non vincevamo mai. Lei conosce Roma e sa che anche a Roma c’è questa tendenza. L’anno prima il Napoli con Maradona per tre quarti di campionato aveva giocato per non retrocedere. L’anno dopo dunque era difficile giocare per vincere subito. Per vincere bisogna avere delle basi di lavoro e non crearsi alibi, se tu hai degli alibi a Napoli hai finito. Vai per la tua strada anche se la strada è in salita. A Ferlaino dissi che se voleva che lavorassi con lui, doveva sapere che io intendevo fissare delle regole e farle rispettare, con severità. Così è stato il primo anno: mi avevano chiesto di andare in Coppa e siamo arrivati subito terzi. L’anno dopo c’è stato il salto di qualità, abbiamo vinto lo scudetto e poi sono cominciate un po’ di beghe, come al solito. Non si è abituati a vincere, a Napoli, però sicuramente le mie stagioni sono state positive».
Maradona com’era?
«Maradona è diverso da quello che dipingono. Quando lo prendevi da solo era un bravissimo ragazzo. In campo è inutile che lo dica io perché è una leggenda del calcio. Era bellissimo da vedere e da allenare. Parlano tutti del fatto che non si allenava ma non era vero perché Diego era l’ultimo a uscire, bisognava mandarlo via perché altrimenti restava ore per inventare le punizioni. E’ talmente appassionato del gioco del calcio che quando avrà ottanta anni avrà ancora voglia di palleggiare. Certo era circondato da un’attenzione, da una pressione che nessuno penso fosse in grado di sostenere. Fuoricampo non giudico nessuno, in campo era una gioia allenarlo».
Si ricorda qualche episodio con Maradona divertente?
«Maradona aveva una capacità di palleggio individuale fuori dal mondo. Quando andavamo negli spogliatoi portavano il cestino con i limoni e lui cominciava a palleggiare con il limone. A me piaceva sfotterlo. Andiamo a San Siro e lui comincia a palleggiare e io dico vabbè, sono sempre le solite cose da circo che fai. La competizione per lui è la vita e allora mi ha sfidato. Io non potevo tirarmi indietro. Lui comincia a palleggiare e fa volare quel maledetto limone un numero impossibile, per noi umani, di volte. Io allora prendo questo limone e ho la fortuna che nella caduta gli do un tiro giusto e comincio a colpire sotto e poi continuo bene… Intanto i giocatori contavano i miei palleggi e alla fine, non so davvero come, ho battuto Maradona nella gara del limone. Allora ho fatto lo spavaldo, ho gettato lontano l’ultimo limone e gli ho detto “vedi, cominci a perdere con me”. Non l’avessi mai detto. Rivincita. Per anni mi ha sempre chiesto la rivincita. Con la rivincita avrei perso con lui cento volte su cento. Non gliel’ho mai concessa. Come mi giravo, lui dalla rabbia palleggiava il limone perfino con il tacco. E io facevo finta di non guardare».
Perché andò via dal Napoli?
«I comportamenti di alcuni giocatori erano dei comportamenti molto particolari, dissi ai dirigenti “va bene io faccio l’allenatore, voi fate i dirigenti. Li chiamate, magari davanti a me, e chiedete spiegazioni”. Loro non vollero farlo. Io non posso condannare giocatori se non ho le prove ma solo per sentito dire e allora decisi di togliere il disturbo perché non ero più in grado di allenare come volevo, di far rispettare quelle regole che ci avevano portato a vincere per la prima volta nella storia di quella squadra e di quella città… Avevo la sensazione che la cosa mi stesse sfuggendo di mano anche perché le chiacchiere su certi giocatori erano molto pesanti. Non volevo condannare dei giocatori senza prove e allo stesso tempo non volevo vivere nell’incertezza».
Quali erano questi comportamenti che non andavano bene?
«Sono piuttosto gravi, è meglio non dirli. E’ meglio che glieli dica Ferlaino. Per quello che mi dicevano loro erano situazioni gravi, situazioni talmente gravi che io non ero all’altezza di superarle».
Le piacerebbe tornare ad allenare?
«No».
Mi dice quali sono i due o tre giocatori giovani più forti che ci sono in Italia in questo momento?
«Sono anni che continuo a battere, come ho fatto ancora quando ero in federazione, sulla faccenda dei giovani. Il nostro è un campionato che risente della crisi dei vivai, dei pochi giocatori italiani in campo, della situazione degli stadi. Da noi fuoriclasse come era Diego, come era Aldair come erano Platini, Falcao, Zico o Van Basten ormai non vengono più. Con i giovani bisogna avere passione, sarebbero la salvezza di tutte le società, perché prima ti fai lo zoccolo duro di italiani e poi vai ad acquistare. Ma due o tre stranieri importanti, è inutile che ne compri undici mediocri. Adesso mi fa piacere che ci sia una piccola speranza, un’inversione di tendenza, vedi l’Atalanta o il Sassuolo. Io una squadra italiana composta da undici giocatori stranieri non la guardo nemmeno. Potrà anche vincere ma non mi interessa. Mi interessa vedere una squadra che ha dentro dei giocatori interessanti, magari giovani come Belotti, Belardi, Locatelli, Calabria, Donnarumma, Bonaventura e chi più ne ha più ne metta…».
Ultima domanda. Qual è la cosa più bella del calcio?
«Il gioco di squadra per eccellenza è il calcio. Il calciatore deve essere rispettoso con i compagni, con gli avversari, con l’allenatore, con l’arbitro. E già una cosa del genere, in un mondo come il nostro, è di una bellezza inaudita».
Fonte: Corriere dello Sport
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