Una veranda e un border collie, un tavolo e la Maresana sullo sfondo. Giuseppe Savoldi, bergamasco di nascita e bolognese d’adozione, è il primo grande colpo record di Ferlaino negli anni 70. Un trasferimento, dal Bologna al Napoli, che ha cambiato il mondo del calciomercato.
Beppe Savoldi, mister due miliardi. Che effetto fa?
“Si giri e prenda la palla”.
Questa gialla e azzurra?
“Proprio quella”.
C’è la sua faccia. La barba e i riccioli. Savoldi, gr 300.
“Me l’ha portata Gianluca (il figlio ndr) era di un suo conoscente di Napoli. Ci giocavano i suoi bambini. E’ una sorta di tango”.
Come quello che faceva ballare alle difese.
“Ho avuto fortuna. Va detto e lo sottolineo. Nella vita ci vuole anche questo, altrimenti non sarei mai diventato Savoldi”.
In che senso?
“Entro all’Atalanta a 16 anni. Calcisticamente sono già vecchio, due anni e poi subito in prima squadra. Mi fa esordire Testina D’Oro”.
Hector Puricelli.
“Lui. Si rivede in me, mi fa esordire e faccio subito gol, in Coppa Italia, contro il Verona. A diciott’anni solo io e Riva siamo già in A”.
Un passo indietro. Nasce a Gorlago.
“In una famiglia di poveri, che tira la carretta. Mia madre lavora nel bottonificio di Gorlago. La maggior parte donne, con qualche uomo che comanda. Le operaie giocano a pallavolo e vincono il campionato”.
Poi si trasferisce a Bergamo.
“Mia madre smette di lavorare, mio padre è ferroviere. Si libera un appartamento di proprietà della Ferrovia affianco alla stazione”.
Approccio allo sport?
“All’oratorio delle Grazie, in viale Papa Giovanni, a Bergamo. Siamo un gruppetto, tutti molto appassionati, qualcuno farà carriera”.
Almeno un nome.
“Franz Arrigoni, che poi ritrovo quando vado a Bologna. Lui gioca nella Fortitudo e vado a vederlo spesso. Dopotutto sono stato io a insegnargli le tecniche del pivot”.
Spieghi.
“Alle Grazie si pensa più al basket che al calcio. Gioco da playmaker. Alle volte sfidiamo delle selezioni di altri oratori. Divertente”.
E il calcio?
“Alcuni amici giocano molto bene, gli serve un portiere e pensano a me. Grazie al basket ho ottimi fondamentali come il terzo tempo e la presa. Una volta si fa male l’attaccante e…”.
Segna.
“Chiaro. Da lì prima passo al Ponte San Pietro, in D, e poi all’Atalanta con Bertoletti”.
E conosce Angeleri, 317 partite con l’Atalanta.
“Mi allena sia in primavera, che in prima squadra. Persona eccezionale, squisita, affabile. Poi giocare con il club della mia città è stata una soddisfazione”.
Dodici gol nel terzo campionato di A e il passaggio a Bologna.
“Mi preme dire una cosa. Segnare a quei tempi era più difficile, i difensori marcavano a uomo e c’erano meno partite. Molto più dispendioso, ora ci sono spazi e arbitri meno accondiscendenti”
Me la descrive come una guerra.
“Semplicemente alcune cose erano permesse, oggi è più semplice che il direttore di gara usi il rosso per un’entrata dura”.
Dicevamo, Bologna.
“Alla grande, città stupenda, gente bellissima. La grande differenza con Bergamo è l’apertura mentale, tutta un’altra cosa. Poi è una piazza calma, che ti fa crescere senza fretta”.
Chi la vuole?
“Fabbri, un padre per me”.
Ma l’allenatore è Cervellati.
“E Fabbri è al Torino, ma ha già un accordo con il Bologna per la stagione successiva. Quindi mi indica come pedina fondamentale nel suo scacchiere. Di Cervellati ho un ricordo particolare”.
Via di aneddoto.
“Siamo in quattro in un appartamento di proprietà della società. Ogni sera Cervellati si apposta per controllare che i giocatori rimangano in casa. Anche intirizzito e sotto la neve. Noi, per risposta, insceniamo – con musica e luci – una festa”.
Di mezzo anche Pugliese.
“Alla riunione tecnica prende le monetine da 100 lire. Undici, e siamo noi. Gli altri, meno importanti, da 50. Spiega i movimenti su un ipotetico campo da gioco”.
Versione paleolitica del Subbuteo.
“Senonché gli mancano sempre delle monetine e le chiede a noi. Finita la parte tattica, prende e si mette le lire in tasca. Soldi, ai tempi”.
Il rapporto con Bulgarelli?
“Lui è il capitano. Andiamo al mare insieme, posso considerarmi uno zio o un fratello maggiore per i figli. Imparo tanto”.
E vince due Coppe Italia.
“Ce le meritiamo, ma la squadra vive un periodo di rinnovamento. Tutti giovani, non ci sono ambizioni da scudetto. E le grandi mi vogliono”.
Tante opportunità?
“Sì. E’ tutto fatto con la Juve, ma i tifosi contestano il possibile scambio con Anastasi e salta tutto. Oppure alla Roma, mi incontro ad Arezzo con il segretario Anzalone”.
La vuole Herrera?
“Sì, e Liedholm a Milano. Ma rimango perché il presidente Conti non mi vuole cedere”.
Ma poi va a Napoli.
“E Conti passa dei brutti momenti. Lettere minatorie, gli vogliono rapire la figlia, una contestazione incredibile. Lui sostiene che Ferlaino l’abbia gabbato”.
Perché?
“Il San Paolo deborda, 80 mila abbonamenti, è record. E non c’è l’ultimo anello attuale. Senza precedenti né successivi”.
Il contatto con la città?
“Stupendo, divento napoletano. Mi metto anche a cantare. Vendo 80 mila copie, ovvero gli abbonati dello stadio”.
Tutto bene, all’inizio.
“Siamo primi ma un intervento killer contro la Lazio mi toglie di mezzo. Vinciamo ugualmente uno a zero, ma poi abbiamo una leggera flessione”.
E niente scudetto.
“E’ il mio rimpianto più grande. Vinciamo solo una Coppa Italia”.
Due anni e torna a Bologna, ma alla fine dell’anno c’è lo scandalo scommesse.
“Qualcuno vuole farla pagare a me e Paolo Rossi, e ci riesce. E’ una questione politica. Scommessopoli attuale è una malattia”.
Savoldi, ultime domande. Cosa fa ora?
“Ho un negozio di ottica, lo manda avanti mia figlia. Io seguo i ragazzini a Levate”.
Ha allenato poco nella sua carriera.
“Volevo fare le cose da solo, il calcio non funziona così”.
Anche poca nazionale.
“Si basava su due blocchi, Torino e Juventus. Io, Antognoni, Pecci, Facchetti facevamo da divisorio”.
Più forte lei o suo fratello?
“Mio fratello”.
Davvero?
“Tecnicamente era ai livelli di Maradona”.
Fonte: TMW Magazine
La Redazione
M.V.
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