Mica semplice farsene una ragione: perché in quella notte paradossale, in cui il possesso palla finale (76%) sottolinea il «potere» tecnico e tattico, il pareggio sa quasi di sconfitta. Mica naturale accontentarsi: perché in quell’ora e mezza, pur senza essere «spaziali» come domenica sera, c’è stato un dominio incontestabile, un gol sbagliato da Callejon che ancora lascia stordito il Napoli, un rigore al minuto 93 e dunque…Mica scontato far finta di niente, piegarsi quel pareggio nell’archivio e poi guardare avanti, alla Roma, e prendere il destino a pallate: pure con l’Atalanta è successo, ed è un 1-1 che Benitez potrebbe raccontare con quella sua espressione «vuota», quasi fosse un pugile suonato. «Ci hanno fatto un tiro ed è stato gol… Albiol nell’occasione doveva stare più vicino a Denis».
Atalanta-Napoli è un coltello che rigira nelle piaghe di ieri, in quelle di sempre: e il dolore, evidente, non può placarsi dinnanzi a quei novanta minuti autorevoli, attraversati giocandola con fierezza, provando a tirar fuori l’avversario dalla propria terra, occupata in lungo ed in largo e difendendola ad oltranza. «Era una gara totalmente sotto controllo e meritavamo di vincere».
CHE SPRECO. L’insostenibile pesantezza dell’essere è in quel respiro profondo, nella vaghezza dello sguardo, nella logica amarezza che alla fine d’uno sforzo vano induce semplicemente a ripensare alle occasioni buttate via, una dietro più clamorosa dell’altra: «Mi spiace per Callejon e per Mertens, che ci sono andati vicini. Questo è il calcio». Fatalmente il calcio, che ti esalta e poi ti deprime, che ti spinge a fantasticare e poi ti anestetizza in un post-partita nel quale Benitez può solo porsi dinnanzi al teleschermo e provare ad esorcizzare quello stato d’animo: «Al di là del rigore, era una vittoria che ci sarebbe spettato per quello che siamo stati capaci di costruire senza mai rischiare seriamente: ma invece al primo affondo loro hanno segnato e noi siamo stati bravi nel continuare ad attaccare, nel proporci, nello sfiorare il gol. Peccato, perché con i tre punti saremmo terzi. Ma non abbiamo nulla da rimproverarci».
E ADESSO. Bergamo è una maledizione perenne, è un tabù che resiste, è una sfida impari (stavolta) con la sorte che si sistema al centro del campo e si diverte, perché il braccio di ferro tra gli essere umani, a lungo, sembrava proporre una soluzione annunciata dai fatti. «Ma invece non è bastato giocare come abbiamo fatto: io per riuscire a migliorarmi so che c’è una sola strada, quella del lavoro; in questo modo si possono ridurre gli errori. Ma stavolta devo dire che la sfortuna, alla quale non mi piace appellarmi, si è accanita».
NO, PIPITA. Ma l’immagine che resta, il fotogramma che domina e che inquieta, trascina le pupille sul dischetto del rigore: minuto novantatré, quando si può capovolgere il destino e tenersi il buon umore lasciato in eredità dalla goleada con il Verona, quando si può persino dimenticare d’aver dovuto soffrire eccessivamente. «Di Higuain conosciamo le qualità, indiscutibili. Forse non ha calciato benissimo, forse i portieri lo hanno studiato ed ora lo conoscono, forse tutto: ma questa era una partita da vincere». Senza forse.
Fonte: Corriere dello Sport
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