Si chiama Montserrà, per tutti è Montse, la signora Benitez: 46 anni, madrilena, occhi color nocciola, due gambe da gazzella e un gran sorriso, sincero e mai convenzionale, specchio di un carattere allegro e solare ereditato dalle donne di un’antica famiglia di origine galiziana.
Qui Liverpool, la città di John Lennon, Paul McCartney, George Harrison e Ringo Starr. E qui, a pochi chilometri dal «Cavern Club», lo storico locale dei fantastici Beatles, c’è casa Benitez. Un castelletto inglese in cima a una collina, circondato da decine di ettari di verde, fiori e piante di ogni tipo, rarità da esposizione, vista sul Galles, e il mare e il fiume a far da scenario. Quattro piani, grande palestra, piscina al coperto, sauna, sala biliardo, una stanza dedicata ai trofei di Rafa, e quant’altro potrebbe essere necessario per decidere di non mettere mai più piede fuori di casa. Niente a che vedere con il Castello di Hogwarts, sia chiaro, ma basta alzare lo sguardo verso il bosco per capire che qualche scena il regista di Harry Potter, in casa Benitez, la poteva pure girare.
«El buen retiro de Rafa», dice Montse sempre sorridendo, lontano da tutto e tutti, un «pequeño paraíso» in grado di fargli dimenticare ogni cosa.
Anche quel 3-0 dell’andata con la Juve?
«Non vi preoccupate, oggi vinciamo».
Dice?
«È una partita difficile, perché negarlo, ma sono ottimista, incrociamo le dita e forza Napoli, coraggio ragazzi».
Speriamo.
«Rafa dice sempre che bisogna fare tesoro degli errori commessi, si perde e si va avanti. Dopo ogni partita guarda e riguarda il video cento volte per capire dove ha sbagliato e come correggere il tiro».
L’esperienza ce l’ha.
«Grande allenatore, ma non tocca a me dirlo, parlano i risultati. Posso assicurarvi invece che è un ottimo marito e mi manca tanto».
A casa c’è poco.
«Eh sì. L’ultima volta qui a Liverpool è venuto a Natale».
A Natale?
«Ormai si gioca ogni tre giorni, muoversi per lui è praticamente impossibile».
Quindi non vi vedete mai.
«Poco».
Poco quanto?
«Una volta al mese, non di più».
E dove?
«A Napoli. Vengo con le bambine, hanno sempre una grande nostalgia. Non riesco a tenerle lontane dal padre troppo tempo».
Giusto.
«Vanno fiere di essere le figlie di Benitez, sono orgogliose. L’unica cosa che non riescono a capire è perché con il loro papà non possono fare una vita normale. Vorrebbero andare al cinema con lui, a mangiare un gelato, al parco giochi. Invece è impossibile».
A Napoli poi più che mai.
«Per carità. Siamo blindati. Quando usciamo, neanche troppo spesso, lo facciamo sempre in gran segreto altrimenti è il caos. Rischiamo regolarmente di creare problemi di ordine pubblico».
Meglio non muoversi.
«Certo. Ma qualcosa dobbiamo pur fare. Non è che posso tenere le bambine perennemente segregate in albergo. E poi a loro Napoli piace molto».
Quindi?
«Quando è possibile andiamo in giro per monumenti. Adoro l’arte e la storia, quella di Napoli in particolare. Sono io che faccio da guida a Rafa, gli ho fatto scoprire il meglio di questa città».
Dove siete stati?
«A Palazzo Reale, Castel dell’Ovo, Cappella Sansevero. Il Cristo velato mi ha incantata, un’opera straordinaria. A Pasqua andiamo a Capodimonte».
Non lo dica troppo in giro.
«Ma no, non c’è problema. I nostri tour sono privati, dopo l’orario di chiusura. Con Rafa al seguito non si potrebbe fare diversamente».
C’è l’assalto.
«Non ne parliamo. Anche quando ci organizzano le visite private si parte solo noi quattro con la guida e si finisce in corteo».
Addirittura.
«E certo. Un po’ alla volta spuntano i parenti della guida, i figli degli uomini della vigilanza, la sorella della cassiera, l’impiegato, suo fratello… E allora ”Rafa una foto, Rafa una firma, Rafa, Rafa, Rafa…”».
Che inferno.
«Più per noi che per lui. Mio marito è abituato, secondo me gli piace pure, si lascia fotografare volentieri, i tifosi napoletani fanno parte della sua vita. E adesso anche della nostra».
Tutti a Castelvolturno, dunque.
«Sì, è l’unico modo per passare un po’ di tempo con lui. Veniamo a metà aprile, ci tratterremo qualche giorno».
Non ha mai pensato di trasferirsi a Napoli?
«No, proprio no».
E perché?
«Non possiamo più andare in giro per l’Europa. Volete sapere quanti posti abbiamo cambiato in quindici anni di vita insieme?».
Dica.
«Abbiamo vissuto prima a Madrid, poi ci siamo trasferiti in Estremadura, dove è nata Claudia, quindi a Tenerife e a Valencia, dove invece è nata Agata, a Liverpool circa otto anni e a Milano per non più di sei mesi».
Giusto, l’Inter di Moratti.
«Lasciamo perdere».
Che vuol dire?
«Non ho un buon ricordo del periodo a Milano. Gli italiani del nord non sono come quelli del sud, un po’ come in Spagna d’altronde».
In che senso?
«Avevo molte difficoltà a comunicare con la gente, anche per le bambine non è stato facile. Perfino i tifosi erano diversi. In ogni caso è durato tutto molto poco».
Per fortuna.
«Non l’ho detto io».
Meglio Liverpool.
«In Inghilterra mi sento a casa, ormai viviamo qui da dieci anni. Ho seguito Rafa fino a quando è stato possibile convinta come sono che la famiglia deve essere unita e viene prima di tutto. Purtroppo arriva il momento in cui non è più possibile farlo».
Volere è potere.
«Fino a un certo punto. Claudia e Agata hanno bisogno di stabilità. Quando erano piccole potevo portarle in giro più facilmente, adesso che hanno 15 e 11 anni diventa complicato».
Non vogliono lasciare Liverpool.
«Ormai questa è la loro città, la scuola, gli amici, lo sport. No, non hanno alcuna intenzione di andar via. E poi anche Rafa ed io qui ci stiamo volentieri».
Soprattutto lei.
«Vi assicuro che, quando c’è, Rafa è felicissimo. Liverpool è una città dove si vive bene. Lo lasciano tranquillo, può andare in giro come e quando vuole senza problemi. Recentemente lo hanno anche nominato cittadino onorario».
Bel riconoscimento.
«Peccato che c’è poco, ma lui qui ci sta alla grande. Mette gli shorts, fa lunghe passeggiate nel bosco, nuota, si allena, gioca con le figlie».
Da Liverpool a Napoli, mica facile.
«Secondo lui si tratta di due città molto simili».
Davvero?
«Hanno entrambe un sacco di problemi».
Bella similitudine.
«Purtroppo è la verità. Però c’è anche tanta solidarietà. La gente ha un cuore grande così. Sia a Napoli che a Liverpool. Anche questo ci ha convinto a mettere su una Fondazione».
Una Fondazione?
«La FMB, Montse-Benitez, l’abbiamo costituita per aiutare a raccogliere fondi e condividerli con le varie Caritas locali nel Merseyside e nel Wirral. Ne assistiamo una decina grazie anche al lavoro della mia amica Linda, una donna inglese straordinaria. Per me è come una mamma».
Come fate a raccogliere fondi?
«Organizziamo tornei di golf, cene di gala, corse di cavalli. Il nostro obiettivo è quello di creare un movimento intorno al quale riunire tutti quelli che vogliono aiutare gli altri».
Prossimo appuntamento?
«Il primo maggio, grande torneo di golf a squadre. Contiamo di mettere insieme 10mila pound. Dobbiamo aiutare i bambini disabili, i non vedenti e far la spesa per la mensa dei poveri».
Certo, se scende in campo la signora Benitez è tutto più facile.
«Senza dubbio. Se c’è Rafa poi è il massimo. In ogni caso quando si tratta di raccogliere fondi non mi creo alcun problema».
In che senso?
«Sfrutto il suo nome. Quando non faccio altro».
A che cosa si riferisce?
«Lo sanno tutti».
Noi no.
«Gli ho venduto una cravatta».
Ma che dice?
«Vi ricordate quella finale di Champions giocata a Istanbul, nel 2005, quando il Liverpool perdeva 3-0 contro il Milan e poi vinse ai calci di rigore?».
Partita storica.
«Beh, mi servivano un po’ di soldi per aiutare gli ospiti di un ospizio. Così ho preso la cravatta che Rafa indossava quella sera e l’ho venduta».
E Rafa?
«Non ha detto niente. È troppo buono, lui».
Anche con i suoi giocatori. Viene accusato di essere eccessivamente morbido, poco severo.
«Non credo sia così».
È l’unico in Italia che manda la squadra a dormire a casa la sera prima delle partite.
«A parte che non succede sempre e poi Rafa è convinto che se i calciatori sono sereni, e stanno bene a casa, giocano pure meglio».
Non ha tutti i torti.
«La squadra fa parte della sua famiglia. Non riesce a trattare i ragazzi da allenatore e basta. Conosce i loro problemi, cerca di risolverli, spesso ne parla anche con me».
Ma lei è tifosa oppure no?
«Lo sono diventata. Prima di conoscerlo non avevo mai visto una partita di pallone. In casa mia il calcio non interessava a nessuno, neanche a mio padre».
Fino a quando non è arrivato Rafa.
«Appunto».
Quando?
«Diciotto anni fa».
Dove lo ha conosciuto?
«A Madrid, in palestra. Io facevo ginnastica e lui il manager».
Il manager?
«Sì, si occupava dell’organizzazione, però era già stato ingaggiato come tecnico dal Real Valladolid».
Insomma, era già famoso o non ancora?
«Gli altri lo conoscevano, ero io che lo ignoravo. Quando si presentò mi disse ”ciao” convinto che l’avessi riconosciuto».
Macché.
«Figuriamoci, mai visto in vita mia».
Così fu costretto a presentarsi.
«”Sono Benitez, l’allenatore di calcio, possibile che non sai chi sono?”».
E lei?
«Rinnovai il concetto: ”No, non so chi sei”».
Poi però avete fatto amicizia.
«Non senza difficoltà. Sei mesi dopo il nostro primo incontro andò ad allenare l’Osasuna a Pamplona».
Addio Rafa.
«Non proprio, ma quasi. Io lavoravo dal lunedì al venerdì all’Università di Madrid, lui nel fine settimana a Pamplona. Facevamo i salti mortali per incontrarci. Però era tutto molto, molto romantico».
Benitez innamorato.
«Lo adoro».
Ma è romantico sì o no?
«Molto. A San Valentino mi ha mandato anche i fiori e ogni volta che vince un titolo per tradizione mi regala un orologio».
Quanti ne ha?
«Dieci».
Gentile.
«È dolcissimo. Mi lascia fare quel che voglio, spendo quanto mi pare, non dice mai nulla».
Vai con lo shopping.
«Non mi piace».
Non è possibile.
«Davvero. Quando ero a Milano tutti a dirmi vai in via Montenapoleone, vai in via della Spiga. Manco a parlarne, non me ne importava niente».
Scusi, ma a quel torneo di golf che cosa indosserà?
«Non saprei. Devo ancora consultare i miei siti preferiti».
Allora lo fa lo shopping
«Certo che lo faccio, ma on line».
Fotne: Il Mattino
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