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Benitez, il mondo visto dall’alto

Il futuro tecnico del Napoli è molto attento ai particolari e molti che lo hanno avuto lo sottolineano come un grande pregio

Chissà se ad Aurelio De Laurentiis che gli parlava del secondo posto del Napoli ha risposto come otto anni fa, prima della finale di Champions con il Milan: «Chi arriva terzo vince il bronzo, chi arriva secondo ha perso la finale». Rafael Benitez Maudes da Madrid è un signore corpulento dal faccione rubizzo, sembra un dottor Balanzone in versione iberica. Uomo sicuramente affascinante perché parla sempre con un timbro di voce basso, un tono pacato e una proprietà straordinaria, anche quando si esprime in una lingua diversa da quella «madre». E’ sempre stato il suo tratto caratterizzante. Quel giorno che comparve davanti ai giornalisti italiani nella sala stampa dello stadio di Istanbul sorprese tutti con un eloquio fluente e corretto. E’ il segno più tangibile della sua intelligenza. E forse per questo è entrato in rotta di collisione con i colleghi dotati di forte personalità, gente come Alex Ferguson o Josè Mourinho. Quel pomeriggio a Istanbul lui era «l’agnello sacrificale», la vittima che la sorte dava in pasto a un Milan da tutti ritenuto stratosferico al confronto con il Liverpool.

E «vittima» rimase sino alla fine del primo tempo, quando i ragazzi di Ancelotti uscirono col sorriso sulle labbra, mentre sugli spalti i tifosi dei Reds dopo aver intonato You’ll Never Walk Alone, lanciandosi verso i chioschi di birra, stringevano la mano ai giornalisti italiani aggiungendo, con un sorriso amaro: Congratulations. Poi arrivò il secondo tempo e anche la lettera dell’allora presidente dell’Uefa, Lennart Johansson, dal sapore beffardo per i milanisti: «La più bella finale di tutti i tempi». Rafa aveva vinto grazie ai balletti sulla linea di porta di Dudek, efficaci quanto quelli di Grobbelaar.

ELOGI – I giocatori a volte lo detestano (i rapporti con Gerrard al Liverpool inizialmente furono pessimi). Motivo: quel suo perfezionismo che lo induce a lunghe sedute di tattica, probabilmente retaggio dalla straordinaria ammirazione che lui ha sempre mostrato nei confronti di Arrigo Sacchi, un altro particolarmente certosino nelle esercitazioni. Perché alla base del suo «credo» calcistico c’è l’organizzazione. E, d’altronde, grazie a quella lui ha vinto e anche tanto in rapporto alla storia delle squadre che ha allenato. Il Valencia non è certo il Real Madrid eppure lo portò alla vittoria di due titoli nazionali e di una coppa Uefa. Il Liverpool, dopo aver dominato dalla metà degli anni Settanta alla metà degli Ottanta, si cullava in una mediocrità aurea: lui lo ha portato alla conquista della Champions. Il Chelsea stesso sembrava avvitarsi in una crisi senza via d’uscita e lui gli ha fatto alzare l’Europa League, nonostante molti giocatori immusoniti, stanchi e stressati per via dei suoi addestramenti tattici. Lui non ci tiene a passare come un maniaco di moduli, diagonali e raddoppi perciò quando arrivò all’Inter disse: «La tattica è una coperta corta; le caratteristiche della coperta le fanno i calciatori» . Ci crede, ma solo in parte. 
FALLIMENTO – Questo suo credo ha cercato di portarlo anche all’Inter. Ma a Milano lui, il più «italiano» dei tecnici spagnoli, ha rimediato la più cocente delusione della sua vita. Moratti non era convinto della scelta e si guardò bene di dare seguito sul mercato alle richieste che il tecnico aveva avanzato. Rafa voleva cambiare l’Inter, si rendeva conto che quel gruppo era ormai al capolinea ma il presidente faticò a staccarsi dal ricordo della Tripletta Mourinhana. Vinse la Coppa del Mondo per club e fu messo alla porta (vicenda replicata al Chelsea). Arrigo Sacchi commentò la scelta in questa maniera: «Hanno rinunciato a uno dei più grandi tecnici dell’era moderna». Più o meno quel che Benitez aveva detto di lui cinque anni prima: «Sacchi è stato il più grande allenatore dell’éra moderna. Il suo modello è ancora valido ed è quasi impensabile perfezionarlo». 

SOLUZIONE – Il suo calcio è in parte spagnolo (nel modulo di riferimento, il 4-2-3-1) e in parte italiano (nell’accortezza difensiva, in quella maniacalità nel chiudere gli spazi). Non disdegna nemmeno il 4-3-1-2 ma ritiene che questo secondo assetto possa produrre conseguenze vincenti solo se si fa molto possesso-palla o i centrocampisti corrono tanto. Una cosa è certa: la difesa a tre non rientra nella sua galassia. E’ sempre stato affascinato dal calcio italiano. Quando l’Osasuna lo licenziò, si sistemò a Valencia e seguì gli allenamenti di Claudio Ranieri. Un suo collaboratore a Liverpool è stato Mauro Pederzoli, ex ds del Cagliari. L’attuale ds della Fiorentina, Eduardo Macia, lo ha accompagnato nella fase dei trionfi valenciani. E’ un uomo di carattere, cioè nei rapporti di lavoro non è un uomo di buon carattere. Ci vuole coraggio a prendere di petto Alex Ferguson: «Solo Ferguson può parlare di calendari, di arbitri e non succede nulla. Tutti vedono come a Manchester mettono sotto pressione gli arbitri» . Sir Alex gli ha giurato odio eterno. Quando è stato chiamato dal Chelsea ha accolto la notizia con una battuta acida: «Benitez è un uomo molto fortunato perché entro due settimane potrebbe aggiungere al suo palmares il secondo mondiale per club senza aver ottenuto nulla con le due squadre» . La sua filosofia è semplice: «Non chiedo ai giocatori una vita monastica ma ordine, disciplina e professionalità». 

Fonte: Corriere dello Sport
La Redazione
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