Se questa intervista fosse stata fatta fra un anno, forse Marco Sportiello non avrebbe scartato neanche “politica” e “arte”: la forte impressione è che nel frattempo Sara gli schiuderà anche quei mondi. Sara Abbiati ha tre anni più di Sportiello, ma ci sta: il portiere è da sempre circondato – dal migliore amico ai compagni di squadra – di gente più grande di lui. Anche questo deve aver inciso, come forse avere una compagna che è agente Fifa: “Ma non è la mia procuratrice: un giorno, chissà”. Di sicuro lo ha fatto diventare un campione di sms e lettere d’amore: “Mi ha insegnato il valore delle parole, sa usarle così bene da riuscire a “manipolare” le persone. Ora se le scrivo sembro un poeta: non l’avevo mai fatto tanto in vita mia”. La prossima missione è disciplinare l’innato disordine di Marco (“Dove passo io, casa o spogliatoio, c’è il caos: montagne di vestiti o cose che crescono ovunque”), altra faccia del suo essere calciatore dalla carriera regolarissima: “Dalla D alla A, tutte le categorie: ho saltato solo la B”. Pare che il Liverpool gli abbia messo gli occhi addosso (“Ma va’… A me sembra già tanto fare il titolare nell’Atalanta”) e stasera, se servirà, Sportiello li rimetterà addosso a Higuain: “Quando all’andata gli presi quel rigore, le gambe si mossero da sole: volevo buttarmi a destra, andai a sinistra. Ogni tanto sono disordinato anche quando paro, sa?”.
LA RELIGIONE — “Vai ad ascoltare una sua messa, ne vale la pena”. Il papà di Sara aveva ragione: a quella messa di suo cugino, Padre Antonio Zanotti, rimasi sbalordito e da quel giorno è cambiato il mio rapporto con la fede. Credevo anche prima, ma oggi ho una percezione diversa di quel qualcuno che sta sopra di noi; a volte andavo in chiesa anche prima, oggi ci vado solo per una sua messa. Le prime volte Padre Antonio mi ha quasi messo in soggezione: ti entra nella testa, con lui è come se non potessi più avere segreti perché sa tutto di te anche se non glielo hai raccontato. Non legge il Vangelo e però scende in mezzo ai banchi e si mette a parlare delle cose che avrebbe dovuto leggere. Non mi ha chiesto di confessarmi e però un giorno mi ha fatto andare sull’altare con Sara a distribuire la comunione e mi sono sentito un altro, con una pace dentro, una voglia di sorridere alla vita, che non avevo mai avvertito. Non mi ha mai detto “Prega” e però mi ha detto un sacco di volte “Ricordati dei poveri e ogni volta che puoi aiutali”. Che come preghiera forse funziona meglio”.
IL SESSO — “La sensazione che ricordo della mia prima volta è la paura. Anche che mi venissero a cercare per picchiarmi, sì, perché lei era fidanzata; ma soprattutto sentivo dentro lo stomaco l’impressione di essere inadeguato, anche perché lei era più grande di me: per fare il figo le avevo detto che non ero al debutto, ma aveva capito benissimo, non ci voleva molto. Avevo 16 anni: fino ai 18 ho combattuto con la timidezza facendo una fatica pazzesca poi, single per scelta, fino ai 21 ho fatto un macello. E ho scoperto quello che qualcuno di noi fa finta di negare, chissà poi perché: la strada più breve per avvicinare un calciatore è il sesso e le ragazze stupide la attraversano senza farsi problemi. Poi con Sara è stata un’altra prima volta: mi sono innamorato e mi sono reso conto che farlo con la donna che ami non ha niente a che fare con il sesso. E a quel punto sei tu che scegli quando è il caso, non il tuo allenatore”.
SOCIAL NETWORK — “Io quelli che sono ancora dentro lo spogliatoio e già scrivono “Grande partita, ragazzi” mica li capisco: perché lo fanno? Perché così arrivano subito cento commenti e si sentono importanti? E che bisogno c’è di mettere certe foto così private, di dire sempre a tutti dove sei e cosa fai? Un giorno mi sono fatto queste domande da solo, perché ero anch’io così: è il brutto degli smartphone, ci si rimbambisce con gli occhi sempre sul telefono, socializzare diventa scriversi quattro parole a ripetizione invece di fare una chiacchierata. Quando ero sui social dalla mattina alla sera li usavo soprattutto per rimorchiare: adesso mi sentirei ridicolo, eppure ho scritto una marea di idiozie a ragazze che manco conoscevo. L’unica cosa a cui serve davvero Facebook? A trovare gente che non senti da una vita: certi compagni delle elementari non li avrei mai ribeccati in un altro modo”.
DESTINO — “Se nell’amore non esistesse un destino io non avrei conosciuto la donna che me l’ha cambiato, perché quella sera né io né Sara dovevamo uscire: lei non ne aveva voglia e venne a quella festa solo perché c’era un suo amico a Bergamo, io avevo perso 4-0 in casa con il Parma e di solito sono tipo da “Se perdo sto a casa”. E poi l’ultima cosa che avevo in testa in quel periodo era di accettare un legame, pensavo solo a divertirmi. Al destino nel lavoro credo di meno: magari certe cose sono già scritte, ma devi essere tu a farle succedere. Se quando il mio preparatore Massimo Biffi mi disse “Cosa ci stai a fare in Primavera? Vai a giocare” io non avessi accettato, e avessi preferito fare il titolare in Primavera, probabilmente sarei rimasto un immaturo. O comunque sarei cresciuto meno in fretta, perché niente ti fa crescere come la Serie D. E poi, sì, devo un grazie a quel bambino che nel gennaio 2014 attaccò la varicella a Consigli, ma se non fossi stato pronto a debuttare in A, quella partita con il Cagliari non me la sarei giocata bene. E magari oggi non sarei qui”.
PAURA — “Solo della morte, dei cani grossi e dei petardi. In realtà della morte ho proprio il terrore, e la cosa strana è che ogni tanto me la immagino come se si potessero avvertire ancora sensazioni: l’impossibilità di aprire gli occhi, il buio. Diffido dei cani da quando, a 7 anni, feci una carezza a un pastore tedesco e per poco non mi staccò un dito. Poi a 17 sono dovuto salire su una panchina per scappare da un dobermann, mentre il padrone continuava a ripetere “Non fa niente”. Non fanno niente un cavolo, i cani sentono la paura e mordono le mani, la cosa più importante per il mio lavoro: è per quello che quando sento di gente che allo stadio o a Capodanno perde un braccio per sparare mortaretti mi vengono i brividi. Per il calcio invece no, neanche la notte prima dell’esordio in A. Avevo dormito bene, ma forse perché ero molto stanco: l’avevo saputo quasi in extremis e le sere prima ero uscito abbastanza…”.
SCUOLA — “Altro che periodo della grande spensieratezza, per me era il contrario e l’ho capito l’altro giorno accompagnando un amico in università: ho messo dentro la testa e vedere tutti quei ragazzi con i libri in mano mi ha fatto tornare l’ansia. Come quando mi interrogavano in inglese e non spiccicavo una parola, perché stare in piedi davanti a tutta la classe non lo sopportavo. E come quando la prof di lettere mi sbatteva sempre fuori, perché con ‘sto vocione mi beccava appena aprivo bocca. Mi piaceva studiare solo scienze e geografia e alla fine ho mollato quando mi hanno bocciato per la seconda volta al secondo anno dell’istituto tecnico per il turismo. Mi ha fregato il rapporto con i prof, i primi a farmi passare la voglia sono stati loro: ero alle elementari, andavo da Milano a Bergamo ad allenarmi e non sapevano far altro che ripetere “Hai in testa solo il calcio”. A un bambino di 10 anni, ma vi pare normale?”.
LO SCHERZO — “Una figura di m…, ma nel senso letterale del termine: di quelle che se sei piccolo ti senti più umiliato che preso in giro. Che oggi, se ci ripenso, mi vergogno ancora. Dunque, sono al circo con mia sorella, vogliono tre persone dal pubblico: urlo “Io, io, io”, e mi ritrovo lì con due ragazze, più grandi e pure belle. Era strapieno di gente, mi sentivo molto figo. C’è da fare un quadro umano e quello che sta sul palco con il microfono mi dice di piegarmi sulle gambe, tipo seduto. Sto lì un po’, poi mi giro a sinistra e una ragazza mi indica ghignando, mi giro a destra e l’altra fa smorfie terribili stringendosi il naso con le dita. Quando comincio a capire, stanno già urlando “Non sforzarti troppo, eh?”, e io nel frattempo non sono diventato rosso, ma direttamente bordeaux. Roba che quando Frezzolini mi ha messo una lucertola dentro una scarpa e io l’ho infilata senza accorgermene mi è sembrata una passeggiata”.
ALTRI SPORT — “Mi sono messo in mezzo a due alberi che avevo sei anni, di fronte c’era mio cugino che con i piedi se la cavava bene. Io per niente, ero già alto e molto scoordinato: un po’ come adesso, insomma. Fosse stato per gli zii che erano lì a guardare mi sarei dovuto dare alla pallavolo, ma non per quello è l’unico altro sport che mi piace tantissimo: è che anche lì c’è sempre da buttarsi per “salvare” qualcosa. Oddio, mi piacerebbe anche il tennis, ma ogni volta tiro la pallina con il braccio invece che con la racchetta e allora lascio stare. Invece a pallavolo, a scuola, me la cavavo, ma ormai era tardi: a sette anni mi ero iscritto a una scuola calcio, tifavo Milan, avevo in testa Seba Rossi e non mi aveva scoraggiato neanche la prima partita, fango fino alle ginocchia e sconfitta per 11-3. Alla fine, a prescindere dal risultato, si tiravano sempre dei rigori e ne avevo parati quattro: mi sembrava abbastanza per insistere”.
ADOLESCENZA — “Rispetto alla canzone cambia solo il numero: eravamo otto amici al bar e lo siamo ancora, solo che da quando sono fidanzato ci si vede un po’ meno. Cosa vuole che si facesse in un paesino come Nese? Lunghe partite a pallone, grandi uscite la sera, la prima vacanza tutti insieme a 16 anni, a Bibione in tenda. Una cricca nata quando avevamo 10 anni, a scuola e poi giocando a calcio, ma di quello si parla il meno possibile. Ci siamo sempre completati bene: a parte me, che sono “lo Spo”, c’è lo sfigato, perché capitano sempre tutte a lui; il ciccione, che però ora è dimagrito un sacco; l’effeminato, che è fidanzatissimo ma dovreste vedere come accarezza i cani; il mascellone che ha la faccia quadrata; il pugile perché fa boxe e il macellaio perché ha due cosce da paura e quando gioca fa entrate da paura. E poi il paranoico, Luca, che ha un anno più degli altri ed è anche il mio migliore amico. Un bel gruppo di matti, mi creda”.
VECCHIAIA — “Non mi piace pensare che diventerò vecchio perché non mi piace il tempo che passa: più che altro non mi piace che passi così in fretta. Mi sembra ieri che avevo 16 anni e non può essere un caso se tutti quelli che hanno una certa età ti dicono: goditi questi anni, perché dai trenta in su la vita vola. Da vecchi si è più sereni? Può darsi, ma io in realtà cerco di essere sereno adesso, di vivermi questi anni godendomeli senza sperperarli, e insomma più che nonno mi vedo bene padre, magari di tanti bambini. A proposito di nonni, ho raccontato una mezza balla: avevo detto che il numero 37 di maglia era dedicato all’anno di nascita di mio nonno Pasquale, il padre di mio padre, ma in realtà l’avevo scelto solo perché mi piaceva, visto che amo tutti i numeri con il 7. Però il 57 che ho adesso l’ho scelto anzitutto per Sara, che è nata il 5 luglio. E spero che invecchiare con lei mi starà un po’ meno sulle scatole”.
MOMENTO BUIO — “Nei paesi piccoli è più facile cascarci: non hai un cavolo da fare, di droga ne gira tanta, rischi di farti tirare dentro da qualche cattiva compagnia. Ci sono andato vicino quando ho anche mollato la scuola: vedevo gli amici studiare e io non avevo certezze neppure sul mio futuro calcistico. Però dalla strada mi ha portato via proprio il calcio: andavo ad allenarmi e scacciavo le cattive tentazioni. Ne ho avute di altro genere quando ho lasciato le coccole di Bergamo e sono andato a Seregno, in Serie D. Per giocare, ma le prime otto partite me le sono viste dalla panchina. Mi buttavo giù un sacco: “Marco, la tua carriera è già finita”. Non sono stato tentato di smettere, ma avevo smesso di credere di poter essere all’altezza: mi chiudevo in casa, non parlavo neppure con i due compagni di appartamento e non mi andava di tornare a Bergamo, troppa paura che mi facessero domande. Come un bambino, ma avevo solo bisogno del mio giocattolo: bisogno di giocare”
Fonte: Gazzetta.it
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