Rafa Benitez è considerato come il Sacchi del tempo moderno. Ed è stimatissimo dal profeta partito da Fusignano per stravolgere il mondo del calcio negli anni ’80. «Non è facile per nessuno raccogliere l’eredità di Mazzarri che per energia e per teatralità è unico nel suo genere. Ma Benitez è l’uomo giusto per raccogliere la sua eredità al Napoli, perché profondamente diverso da Walter: più distaccato, più freddo. E il suo gioco è tutta un’altra cosa». Arrigo Sacchi neppure ricorda quando ha incontrato per la prima volta Rafone. Non si fa fatica a crederlo: il nuovo tecnico del Napoli con il suo aspetto impiegatizio e con le movenze da pantera rosa è tipo che può passare tranquillamente inosservato.
Sacchi, Benitez dice che lei è il più grande allenatore della storia?
«Me lo ripete ogni volta che mi incontra. Mi racconta delle volte in cui è stato mio ospite a Milanello prima e a Coverciano poi per seguire i miei allenamenti, studiare le mie tecniche. Ma io non me lo ricordo. Sa, a quei tempi venivano in tanti a vederli e a prendere appunti».
Giusto definirlo un suo allievo?
«No, non lo è. Magari da lontano e indirettamente. Come non lo è Klopp, il tecnico del Borussia Dortmund, che pure mi ha confessato in diretta tv l’enorme stima che ha per me. Io ho conosciuto Benitez quando sono andato in Spagna e lui guidava il Valencia e quella squadra aveva già la sua personalità. Come poi il Liverpool».
Somigliavano al suo Milan stellare?
«Il centro di tutto era il gioco e non i giocatori. E quasi mai ti accorgevi se mancava il campione o giocava la riserva. A Valencia prese il posto di Cuper e vinse subito: un bel segnale questo per il Napoli. Mi contattò e mi svelò che se era diventato allenatore era per la grande ammirazione che aveva per il mio modo di interpretare il calcio».
Da Mazzarri a Benitez: è una rivoluzione?
«Beh, sì. Per Benitez il gioco è il leader, non lo sono i giocatori, neppure se si chiamano Cavani o Ibrahimovic. Lui non è un mago: è uno che ha bisogno di tanti giocatori funzionali al suo progetto tecnico per ottenere i risultati. De Laurentiis dovrà essere bravo ad assecondare le sue esigenze».
Dovrà essere un mercato saggio?
«Se il Napoli prende Benitez deve sapere che pure Riccardo Muti, che è il più grande direttore d’orchestra al mondo, potrebbe avere difficoltà a dirigere una band di rockettari o di metallari. Anche se i migliori al mondo».
Il calcio di Benitez è…
«È un calcio in cui tutti si danno una mano e ognuno sa quello che fa un altro. Al centro c’è il progetto e non il calciatore. Il dominus è il gioco e il suo lavoro è finalizzato allo spettacolo e al divertimento».
Sacchismo puro. È musica per le sue orecchie?
«In Italia da tempo non ci sono allenatori che vivono il calcio in questa maniera, come lo fa Benitez. Non potrà mai essere un giocatore da solo a risolvere tutto, deve esserci una squadra intorno che sa muoversi in armonia, con un copione. E non sto parlando di una gabbia, ma di un moltiplicatore delle singole qualità».
Però non penserà che se resta Cavani o va via è la stessa cosa?
«Io sono contento di aver invertito una certa tendenza: ogni volta sembra che il calcio sia diventato uno sport per sole stelle. E invece vince quasi sempre il gruppo. Il mio Milan per esempio era così. Un anno vinsi la Coppa dei Campioni con Gullit che giocò solo una volta su nove gare e Colombo ed Evani quasi sempre titolari. Funzionale non significa essere necessariamente i più bravi».
Già, ma tre anni fa con l’Inter fu un mezzo fallimento per Benitez.
«Non fa testo. Arrivò alla fine del ciclo di Mourinho e non trovò gli interpreti giusti per il suo calcio. Quelli che c’erano erano giocatori funzionali al gioco di Mourinho e non di Benitez. Le faccio un esempio? Picasso è bravissimo, ma se esponete i suoi quadri sulla stessa parete di Monet magari trovate qualcuno che storce il naso…».
Il Napoli non l’ha mai esaltata sotto il profilo del gioco, vero?
«Non mi ha mai fatto divertire. Ma Mazzarri è stato bravissimo a realizzare le sue idee. Diverse dalle mie e anche da quelle di Benitez. All’Inter sono certo che hanno trovato l’uomo giusto per chiudere questo ciclo negativo».
Prima ha detto: è una scelta rivoluzionaria.
«Un cambiamento profondo della filosofia di gioco del Napoli, certo. Spero che sia assolutamente ponderata: nel ’91 venni contattato da un club subito dopo il rifiuto di Trapattoni ad accettare la panchina. Ecco, mi dissi, un presidente che non ha le idee chiare».
Benitez somiglia molto a lei anche per altri aspetti: non è stato un grande calciatore, non ha un’immagine alla moda, non si dà arie da guru.
«Una volta sorrisi quando seppi che Rafa aveva ripetuto una frase che io dicevo sempre a chi rimproverava a lui, come avevano fatto con me, di non aver avuto una grande carriera. ”Hanno mai chiesto a un fantino, per essere un vincente, di essere stato prima un cavallo?”».
Il Napoli con questa scelta si avvicina alla Juve?
«Se in Italia giochi bene fai un passo in avanti. Poco tempo fa io e Costacurta eravamo in Danimarca per una gara Under 21 e le due nazionali giocavano come il mio Milan. Billy mi fa: ”Ci imitano in tutto il mondo tranne che in Italia”. È così. Per questo sono contento del ritorno di Rafa».
E Mazzarri?
«Mazzarri ha valorizzato Hamsik e Cavani, prima aveva fatto tanto per Lavezzi. Ma il suo gioco, e non è una critica, ha bisogno di interpreti illuminanti. Io credo invece al gioco capace di illuminare i giocatori».
Chi deve prendere il Napoli per essere una grande squadra?
«Le posso dire cosa deve avere: campioni e organizzazione. E tanto coraggio nelle scelte: Mandzukic il Bayern lo ha pagato la metà di Giovinco. In Italia nessuno lo avrebbe fatto».
Che tipo è lo spagnolo?
«Benitez è uno di quelli che non si considera un mago, che non strizza l’occhio al presidente, alla curva, ai senatori e che per sembrare moderno fanno il gioco delle tre carte… Lui è uno che ha un carattere molto ruvido: sono molto curioso di vedere come se la caverà nei rapporti con De Laurentiis».
Il presidente del Napoli dice che l’unico modo per costruire un calcio migliore è partire dalla base e cioè dai giovani?
«E allora ha trovato il tecnico che fa per lui. Ma ci vogliono pazienza e la collaborazione di tutti perché da noi non si è mai creduto nei giovani. Come può un allenatore farli giocare in un contesto in cui, se perdi due partite, salta la tua panchina? Il calcio in Italia è sempre stato vissuto attraverso il risultato, il che impedisce di crescere. Si lavora più per distruggere che per costruire. Il modo di giocare non dipende dai tecnici ma dal pubblico».
Fonte: Il Mattino
La Redazione
P.S.
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