Pasquale Aruta, arbitro napoletano 25enne, ha lasciato un’intervista a Il Mattino sui motivi per cui ha abbandonato la professione. Eccone uno stralcio:
“Ne ho viste tante, alla fine non faceva per me. Non ho mai subito episodi di violenza ma insulti tantissimi. Anche se quando sei in campo non li senti nemmeno. Mi rendo conto che fanno parte del gioco. Ma non dimenticate mai che in campo all’inizio ci va un bambino. Non era la mia strada. Non era facile essere in campo con tutti che ti attaccano e credono che sia colpa tua. Praticamente ad ogni fallo, ad ogni contrasto, si scatena di tutto. Però, con giocatori e dirigenti le cose non andavano male. Più che altro è fuori che ci sono i problemi. Sugli spalti accade di tutto. Ognuno ha in campo il suo piccolo Maradona. E, ovviamente, ognuno la vuole dall’arbitro perché pensano che il loro figlio ha sempre ragione, l’allenatore e l’arbitro sempre torto. Devo dire grazie all’ex presidente della sezione di Frattamaggiore, Bagnarola. Un padre, una persona che era sempre presente. In sezione si stava molto bene insieme. Ci chiamavano, ci esortavano, ci spingevano ad essere gruppo e ad aiutarci l’uno con l’altro. Quando hai 15 anni non è facile entrare in uno spogliatoio. Sei lì, da solo, con la pressione delle due squadre, i dirigenti, i giocatori, i genitori. E raramente trovi qualcuno che è dalla tua parte e capisce che sei un bambino anche tu. Questa forse è la cosa più problematica con l’approccio a una partita. Capire che sei solo, non hai nessuno accanto, un modo di affrontare la realtà completamente differente da quella a cui sei abituato a casa o a scuola. La situazione più pericolosa? A Casal di Principe c’erano due squadre con genitori sugli spalti che certo non si volevano bene. Trasmettevano nervosismo in campo. Hanno cominciato a insultarsi, era un brutto spettacolo da vedersi. Fortunatamente, però, i problemi erano tra di loro, non con noi in campo”.
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