Quante volte s’è arrabbiato Mazzarri, a fine partita? La risposta esatta è: una. A Catania. E non ha scelto, come dire?, strategie alternative: lui è andato frontalmente al problema, non l’ha aggirato, non l’ha subito, non l’ha inghiottito. L’ha svelato: uomo contro uomo, per dribblare le preoccupazioni altrui (soprattutto quelle ambientali) e mostrare d’avere percezione della anomalia. Il suo Napoli, domenica, ha fatto niente di quello che sa fare e che avrebbe dovuto fare e nell’analisi del dopo gara non sono stati risparmiati i riferimenti anche ai «tre tenori» che per una volta hanno steccato. Al lunedì, poi, riflessioni nel chiuso dello spogliatoio, a Castelvolturno: sempre in maniera diretta, evitando ovviamente di colpevolizzare e men che meno di avviare processi intempestivi ed esagerati.
Poche e mirate annotazioni sulla concentrazione, soprattutto sull’approccio alla gara cominciata in pratica dopo l’espulsione di Alvarez e affrontata con leggerezza, con sufficienza che è sembrata parentesi prossima di un eccesso di confidenza sembrata persino «presuzione». E poi qualche indicazione da tener presente a futura memoria, quando il Napoli – e accadrà ancora – si ritroverà di nuovo a dover andare all’assalto di un bunker, con otto-nove uomini sistemati dietro la linea del pallone e le strade per il gol occupate. Per cominciare, Mazzarri ha chiacchierato un po’ con tutti, ha avanzato richieste precise; poi ha lasciato che dopo il padre o il fratello maggiore, il dialogo fosse guidato con l’autorevolezza dell’allenatore. E dunque ripassata alla lezione, ai movimenti offensivi e pure a quelli difensivi – soprattutto all’atteggiamento – che nel finale di una partita indecifrabile per poco non stava per costare persino la sconfitta.
Fonte: Corriere dello Sport
La Redazione
A.S.
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