Abbracci, occhi lucidi, urla di gioia, visi raggianti, applausi scroscianti, corse in campo per stringere la mano ai propri eroi: momenti emozionanti impressi nello scrigno del cuore, dove si custodiscono ricordi indelebili, che ancora fanno vibrare le fibre del tuo essere non appena li richiami alla memoria.
L’incontenibile tripudio dei tifosi del Real Afragola, che vinse per due volte il campionato regionale juniores di calcio (prima classificata, dunque, fra le squadre giovanili di tutta la Campania a metà degli anni 60), viene rivissuto sempre con la stessa intensità, nonostante siano trascorsi tanti anni. Era una squadra formata da piccoli, per età, ma grandi campioni, per senso di disciplina e perseveranza nell’impegno: giovanissimi che non si montavano la testa, uniti dalla passione per il calcio, determinati e tenaci, come il loro allenatore Enzo Di Palo, caparbi nel perseguire la vittoria, brillanti nel mostrare un gioco spumeggiante, ma anche abili nel difendere un risultato utile. L’Afragola sportiva, e non solo, era fiera di quei giocatori battaglieri e generosi, indomiti e coraggiosi, che riuscirono ad aggregare intorno a loro persone di ogni età, destando negli adulti un senso di fierezza e di grande soddisfazione per le loro imprese calcistiche e nei ragazzini desideri di emulazione e il sogno di far parte di quella compagine che offriva, ogni domenica, un gioco spettacolare.
“Forza Real!”Forza Real!”, scandiva la moltitudine di tifosi afragolesi, casoriani e di altre cittadine dell’hinterland napoletano ( circa tremila assistettero alla finale regionale disputata ad Agnano, dove la squadra del Direttore Nando Pannone vinse per uno a zero): fan che amavano e ammiravano quel gruppo compatto e coeso che, in campi ostici e in qualsiasi condizione atmosferica, portava al trionfo anche un’idea dello sport sano e pulito, come sani e puliti nell’animo erano quei giovani calciatori che, dopo lo studio o al termine di una giornata di lavoro, si allenavano in settimana scrupolosamente, accettando umilmente anche i richiami severi del loro “mister”,”‘o cumpare”, manifestando, quindi, un alto senso del dovere. Ero un ragazzino quando diversi di loro frequentavano la mia abitazione, soprattutto dopo una vittoria importante: colpiva il legame di amicizia che li univa anche fuori dal campo, la grande stima e il profondo affetto che nutrivano gli uni per gli altri: giovani sereni, semplici e gioviali, che tali rimasero anche dopo “essersi fatto un nome”, senza permettere al tarlo della presunzione e della saccenteria di invadere il loro cuore. Qualche giocatore, in seguito, militò nella “Casertana”, ( il cui talento calcistico fu notato dai dirigenti della squadra di serie C in un’amichevole disputata allo stadio Moccia di Afragola), ma il cuore palpitava sempre per il Real, in cui si “erano fatti le ossa”, squadra che aveva rappresentato, come del resto per gli altri, un’autentica palestra di vita. Partita dopo partita, nelle strepitose vittorie e nelle cocenti sconfitte, che pure non mancarono, quei beniamini del folto e variegato pubblico, che li seguiva ovunque, impararono a “vivere”il calcio nel suo vero significato di sport in cui, in un sano spirito agonistico, è giusto che vinca il migliore; capirono che per conquistare progressivamente l’equilibrio psico – fisico occorre dominare i propri istinti attraverso il rispetto delle regole, dei tempi e dei ritmi di allenamento; appresero, giocando in temperature infuocate, nei rigidi pomeriggi invernali o sotto la pioggia scrosciante, a calibrare e a sopportare la fatica, a soffrire e a stringere i denti quando serve e a gioire con i propri compagni di squadra in caso di vittoria, sempre nel rispetto degli avversari. Quale il compenso ricevuto per il loro produttivo impegno? La risposta ce la fornisce Marco Botta, che ha cominciato a giocare nel Real Afragola prima ancora di avere compiuto 14 anni: “Oggi subito si pensa alla carriera e ai lauti e cospicui guadagni che il calcio permette di realizzare. In noi, invece, erano forti la soddisfazione e l’orgoglio di essere riusciti a raggiungere traguardi insperati. Un grande compenso, “redditizio” e prezioso per la vita, ha lasciato a me e ai miei compagni quell’esperienza indimenticabile: “Chi impara a condividere nel gioco di squadra gioie e dolori, attese e speranze, è poi capace di inserirsi proficuamente nel tessuto civile, rispettando gli altri, divenendo genitore esemplare e sicuro punto di riferimento per i propri figli”.
Vogliamo, finalmente, nominare questi campioni di un tempo che fu ( ci riferiamo, in particolare, agli anni 1965 e 1966), che hanno deliziato i loro appassionati tifosi con un gioco “champagne”? Eccovi accontentati con la formazione tipo: Leone (sicuro nelle uscite e nella presa), Vinci (un vero “mastino”), Salzano (altro “cane da presa”, bravo nei disimpegni) il capitano Coppeta (abilissimo regista di tutta l’area difensiva, molto sicuro nelle interdizioni e impeccabile anche nel ricostruire il gioco), Petrellese (attento e preciso), Cerbone (coriaceo, dinamico, un Gattuso dei nostri giorni) Sarnacchiaro (molto agile nei dribbling e nello sfuggire agli avversari), Botta (dal sopraffino tocco di palla, punto di riferimento a centrocampo, di una precisione millimetrica nel servire gli attaccanti), Laudiero (il cannoniere della squadra, funambolico in area avversaria, rapidissimo nello sfruttare qualunque occasione per fare gol), De Lucia (estroso e imprevedibile), Fusco (un vero ariete nell’area avversaria, un bravissimo colpitore di testa). Titolari della squadra anche Boemio (veloce e potente nel tiro conclusivo), Dezio (una “lepre”, rapido negli scatti e nei dribbling) e Zanfardino (caparbio, deciso, determinato). Un ultimo pensiero per Raffaele Coppeta, morto prematuramente qualche anno fa: un campione nelle gare e fuori campo. Sempre corretto, un esempio di quello che oggi viene definito “fair play”. Un ragazzo molto cortese, buono, di grande equilibrio interiore, cordialissimo con tutti. Grazie a te, carissimo Raffaele, salito “sul podio più alto”, come è stato detto di Marco Simoncelli, e grazie a voi calciatori del mitico Real, suoi compagni di un’avventura magnifica e indimenticabile,, per averci fatto capire che lo sport, fatto di prove e sacrifici, di gioie e delusioni, di traguardi da conquistare e sempre da rinnovare, è una grande scuola di vita, sulla quale puntare per aiutare i giovani a costruire i loro progetti, ma anche il loro senso di responsabilità.
A cura di Antonio Botta
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