“Quando ho visto quella volée di Mario Mandzukic superare il portiere ho pensato ‘Wow, forse è la nostra occasione’. Quando sono uscito dallo stadio di Cardiff ero in pace con me stesso. Quando sono tornato in Italia, la sera dopo, mi sono chiesto se quella fosse la fine della nostra strada”. Sono tre passaggi del racconto di Massimiliano Allegri a “The Players’ Tribune”, piattaforma media che ospita testimonianze di atleti ed allenatori scritti in prima persona. Allegri racconta la notte della finale di Champions, quelle che sono seguite e la sua scelta di continuare, con flash-back ai momenti che lo hanno portato ad essere un allenatore o ai passaggi chiave della sua carriera.
CARDIFF — Il racconto parte dalla finale di Champions: “Quando ho visto quella volée di Mario Mandzukic superare il portiere ho pensato ‘Wow, forse è la nostra occasione’. Era una magnifica sequenza tecnica, un gol irripetibile. Mostra quello che serve per essere in finale di Champions: non devi solo essere grande, ma speciale. Noi avevamo giocatori speciali, purtroppo il Real ne aveva tanti. Nel secondo tempo sapevo che non avevamo i mezzi, i pezzi giusti di cui avevamo bisogno. C’erano due giocatori che a stento potevano stare in piedi per gli infortuni, e il Real giocava una gara intelligente e rilassata. Può sembrare strano, ma sono uscito dal campo in pace con me stesso: non eravamo la squadra migliore. La sera successiva, a casa, mi sono dovuto fare la domanda più dura: era la fine della strada, era il massimo a cui potevo portare questa squadra?”
DIMISSIONI O NO — Allegri si chiede se “scrivere la parola fine sulla mia storia alla Juve. Una parte di me voleva andare in sede lunedì e dare le dimissioni”. Per rispondere a quei dubbi Allegri racconta di aver pensato a quando era ragazzo e ai motivi che lo avevano portato ad essere un allenatore. “A 14 anni a scuola odiavo la scuola. Non pensavo di poter essere un buon studente, ma pensavo di poter essere il preside. Forse tutti gli allenatori lo hanno sognato. Anche da giovane giocatore volevo insegnare”. E poi racconta di aver pensato a quando il nonno lo veniva a vedere giocare e non commentava mai la partita, ma si curava solo che si fosse divertito: “Cerco di ricordarmi quell’insegnamento, mi vedo come un tecnico della giovanili: amo insegnare e amo far diventare i giocatori migliori e più intelligenti”
DYBALA, BUFFON, LE FERITE — Così è maturata la decisione di restare: “Ho pensato che avevo ancora molto da dimostrare. E sapevo di avere ancora molto da insegnare. Così quella sera andando a dormire ho pensato che se il club era con me e la mia strategia e potevamo procedere insieme, avrei continuato. Era una nuova stagione, con nuove opportunità, Guardo a Dybala e Buffon come ai simboli della Juve: uno è un ragazzo che inizia il suo primo anno a scuola, l’altro sta prendendo un Master. Uno con una carriera davanti, l’altro verso la fine. Uno che vuole dimostrare di poter essere fra i grandi d’Europa, l’altro che lo è già, ma vuole lasciare al top. So che possiamo cancellare le ferite di Cardiff e avere una grande stagione. E cercheremo di tornare in finale”.
TESTA DURA E FALLIMENTO — Sui suoi metodi poi racconta: “Forse sono un po’ ‘testa dura’, ma credo che sia quello che serve. E la cosa più importante sono gli istinti. Quando non seguo il mio istinto, e dubito, faccio errori. Da allenatore impari sopratutto dai fallimenti: il momento più importante della mia carriera non è una vittoria, ma l’esonero al Milan. Me lo aspettavo, lo hanno fatto con rispetto, ma io ho sentito il fallimento”.
Fonte: Gazzetta dello Sport
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