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Alberto Bigon: “Nel ’90 che sfizio travolgere i bianconeri”

L’ex tecnico: "Quella squadra poteva vincere la Coppa Campioni"

Ventidue anni di attesa, infarciti di errori e speranze, follie e delusioni, prima di piombare di nuovo sulla Supercoppa, il secondo assalto al trofeo nella storia del Napoli. Il primo settembre del 1990, alla stadio San Paolo, sulla panchina degli azzurri c’era Alberto Bigon (Albertino per l’anagrafe), un pezzo importante della nostra storia calcistica. «Quella notte non avrei mai immaginato che si stava chiudendo un ciclo meraviglioso. Era davvero una squadra bellissima».
Un trionfo: 5-1 e nella ripresa Tacconi vi chiese di non infierire.
«Era la sfida tra i due numeri 10 più forti al mondo, Roberto Baggio e Diego Maradona. E tra i bianconeri c’era l’eroe del mondiale italiano, Totò Schillaci. Una formazione quasi epica, quella Juve. Era la prima gara ufficiale dopo Italia ’90, noi avevamo lo scudetto sul petto: il Pibe non segnò, ma la partita fu spettacolare».
Però, fu l’ultimo suo sorriso sulla panchina del Napoli?
«È vero e lo dico con grande rimpianto: sarebbe cambiato tutto se a Mosca non avessi schierato un Napoli d’emergenza, pieno di riserve. La Coppa dei Campioni quell’anno l’avremmo potuta vincere noi. E non esagero».
Bigon, poi si mise anche Maradona?
«I compagni da lui accettavano tutto, io come allenatore facevo un po’ più di fatica. Venivo dalla scuola Milan: Rivera, Cudicini, Rosati erano i primi ad arrivare all’allenamento, lui o veniva in ritardo o non veniva proprio».
E lei che fece?
«Chiesi ai giocatori cosa fare. E loro mi dissero: mister, lei alleni noi come una squadra normale che al resto ci pensa Diego… Nell’anno dello scudetto Maradona fu quasi impeccabile, poi però successe di tutto, anche perché le sue condizioni peggioravano. Con lui la società le ha tentate tutte».
Arriviamo alla sfida di domani: chi vince?
«Il Napoli dei tre tenori. E non pensi a un lapsus: Pandev è davvero un fenomeno e a mio avviso farà la differenza a Pechino, insieme a Cavani. Sono certo che gli azzurri abbiano aperto un ciclo vincente. Però devono stare attenti…».
A cosa?
«Non devono pensare che la vicenda Conte possa influenzare in negativo la prestazione della Juventus. Al contrario, ritengo che darà una carica in più: un po’ come quando si resta in dieci o si subisce un torto dall’arbitro».
Peraltro a lei Conte fece un bel torto quando allenava l’Olympiakos?
«Segnò in Champions un gol beffardo che ci costò il passaggio del turno. La domenica dopo nel derby col Panathinaikos i tifosi non facevano che intonare il suo nome. Però io con lui ce l’ho per un altro motivo».
Quale?
«Ero a Lecce e Antonio era la mia arma in più a centrocampo: la Juve lo prese e io ottenni da Trapattoni di tenerlo con me fino alla fine della stagione. Invece il Trap se lo portò a Torino a novembre. E per me fu un bel guaio».
Il calcioscommesse si abbatte di nuovo sul nostro pallone. Lei era il capitano del Milan quando lo scandalo del 1980 travolse l’onorabilità rossonera. 
«Sono vicende che fanno male, anche se si è estranei. Io non ebbi sentore di nulla. Nessuno trovò mai il coraggio di avvicinarmi. Quando Sergio Campana, allora presidente dell’associazione calciatori me lo venne a dire, io rimasi di sasso. Ma vedo che le cose non sono cambiate molto. E la cosa mi rattrista».
In pochi lo ricordano, ma la sua carriera da calciatore è iniziata a Napoli?
«Ne ho un ricordo sfumato: era il 1967 ma mi trovai in squadra chiuso da gente tipo Altafini, Sivori, Orlando, Canè e Juliano. Avevo 20 anni e dopo 4 mesi me ne andai alla Spal».
Non è detto che lei non ci ritorni un’altra volta a Napoli?
«Io sono qui, attendo una telefonata di De Laurentiis. Ci vuole un secondo per mettersi d’accordo. Appena il progetto per il settore giovanile decollerà, sono sicuro che la chiamata del presidente arriverà».

Fonte: Il Mattino

La Redazione

M.V.

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