Domenica 11 luglio 1982. Una finale da almanacco, per me la partita della vita. La sospirata Madrid si era tirata a festa per noi: italiani da una parte, tedeschi dall’altra. La mattina, all’hotel Alameda, il presidente della Repubblica Pertini venne a portarci il suo saluto da primo tifoso tricolore: «Rossi stai attento alle gambe e spara, spara, spara e salta». In cuor mio sentivo che ce l’avremmo fatta ma dovevo dare tutto me stesso ancora una volta. Dopo la vittoria epica contro il Brasile il mondo intero si aspettava molto da me. Non potevo e non volevo deludere Bearzot, i miei compagni ma soprattutto i 40mila italiani al Bernabeu e arrivati da ogni dove e gli altrettanti connazionali incollati ai televisori delle loro case. Ma l’impresa non era da poco. I tedeschi di Rummenigge e Breitner non erano affatto da sottovalutare, da tradizione una squadra di combattenti non si sarebbero arresi tanto facilmente. La loro fisicità è risaputa, tanto come la loro disciplina. Noi eravamo certamente più estrosi, dotati di una straordinaria fantasia. Alla vigilia, nessuno era riuscito a prendere sonno. L’inno di Mameli segnò l’inizio di una favola, inchiodandoci sull’attenti. Cercai d’isolarmi per trovare la convinzione giusta, sentivo forte l’orgoglio d’indossare la maglia Azzurra. Dovevo farcela. Dovevamo vincere. Entrai nel tappeto d’erba con il solito piede destro, una scaramanzia alla quale facevo sempre ricorso. Il resto è storia: Rossi, Tardelli e Altobelli. Fummo noi a firmare quella finale, rispedendo i tedeschi a casa con le mani fra le tempie impazzite. Alzai gli occhi al cielo e ringraziai. Lo stadio era un tripudio di bandiere e colori. Avrei voluto fermare il tempo, impossibile. Bearzot portato in trionfo e la Coppa nelle mani sudate di Zoff sono i frammenti di una notte magica che non potrò mai cancellare.
Fonte: Il Mattino
La Redazione
M.V.
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