La cosa più vera la dice il Vescovo di Bergamo. Non è all’altare ma manda un messaggio letto al microfono da un giovane curato: «Il mondo ha conosciuto le qualità di Morosini grazie all’irruzione nella sua esistenza della sofferenza. E della morte». Nella chiesa del suo funerale se ne capisce il senso: era un ragazzo d’oratorio, e tale era rimasto. Anche i tifosi più accaniti sapevano a malapena chi fosse. Il suo modo di morire e i drammi che avevano investito la famiglia l’hanno reso un personaggio epico. Suo malgrado.
A destra dell’altare c’è la squadra del Livorno, l’ultima, per uno che ogni anno cambiava società come capita alle promesse che non esplodono mai del tutto. Fra loro un napoletano di 21 anni che guarda fisso la bara come ipnotizzato: Antonio Meola, difensore. È uno di coloro che stan sospesi fra una possibile carriera da star e una da anonimo calciatore. Ma ora deve fare i conti col fatto che da quell’altalena che sembra il gioco della vita si può cadere in un attimo. Definitivamente. E non se ne dà pace.
Fuori dalla chiesa di Monterosso, il quartiere di Bergamo dove Morosini è stato bambino e ragazzo, ci sono i tifosi dell’Atalanta con striscioni, fumogeni, slogan: «Uno di noi, uno di noi». Lo urlano compìti e seriosi. Nello stesso momento, dall’altare, il parroco dice che se chiedevi a Morosini dove avrebbe giocato la prossima domenica, rispondeva con un sorriso. Dirlo avrebbe significato, per lui, «tirarsela da figo». E non voleva.
Nella parrocchia ci sono due mondi che sembrano incompatibili. Su un lato i ragazzi di chiesa che non tengono le lacrime mentre la madre della fidanzata Anna si rivolge al Morosini che sta lassù: «Mi raccomando, almeno dal cielo non chiamarmi signora». Sull’altro lato i ragazzi con il gel nei capelli e le camice inamidate dei club calcistici, spaesati.
La sorella di Piermario, disabile, non c’è. I genitori sono morti. Il fratello suicida. Il prete all’altare, don Luciano Manenti, non ha bisogno di rammentarlo. Gli basta ricordare quel che chiese a Morosini: «Ma tu, rispetto alla vita…». Lui, rispetto alla vita, rispose che aveva più cose «per essere grato rispetto a quelle per cui recriminare». E mentre il prete lo dice, il viso disperato della fidanzata, che sta in prima fila e tortura la sua fotografia con le mani, si trasforma in un sorriso.
Poi c’è l’esercito dei vip. I colli che si allungano per guardarli. Prandelli e Ciro Ferrara, Di Natale e Guidolin, Novellino e Donadoni, Abete, Albertini, Muntari. Elenco che si allunga all’infinito coi giocatori – meno famosi – delle squadre che a turno hanno vestito anche Morosini: Padova, Reggina, Bologna, Udinese. E Vicenza, che la scorsa stagione era allenata da Rolando Maran: «Io di Piermario posso dire questo: era davvero un ragazzo che ogni padre avrebbe voluto come figlio».
Giù dal sagrato, oltre la barriera di centinaia di ultras e curiosi che non hanno trovato posto in chiesa, c’è il «Nuovo Piccolo Bar» pieno come un uovo. Mentre gli altoparlanti diffondono la predica, si riempiono i calici di prosecco e le coppe di spritz, con le lacrime agli occhi; le stesse di chi sta davanti alla bara. Perché poi il mondo del calcio è così, contraddittorio, spietato, generoso, insensibile, delicato, aperto e impenetrabile. Il sacerdote: «La morte di Piermario ha fuso tutto in un’unica cosa». Un miracolo, a suo modo.
La foto di Morosini è dappertutto. «Bellissimo» come ha detto Anna quando lo ha dovuto riconoscere nell’obitorio di Pescara. Bellissimo, ma pure bruttissimo nella sua morte in diretta, quel suo cadere e rialzarsi, e ancora cadere e rialzarsi, e poi cadere.
Fonte: Il Mattino
La Redazione
M.V.
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