Maestro e signore, parlava cinque lingue, conosceva il calcio e il mondo. Ma spesso amava esprimersi attraverso frasi consegnate alla storia, aforismi che profumavano di paradosso e di apparente banalità. «Rigore è quando arbitra fischia», «Loro sono loro, noi siamo noi», «Se vinciamo siamo vincitori, se perdiamo siamo perdenti», e via andare. Il gioco del pallone l’ha insegnato anche ai giovani allenatori al Centro Tecnico di Coverciano, l’università italiana del calcio. Un formidabile, simpatico zingaro, Vujadin Boskov di Belec, un puntino sull’atlante, geografico, quindici chilometri da Novi Sad, ex Jugoslavia, oggi Serbia. Un castello di proprietà e una casa museo, la pinacoteca privata a raccontarne le imprese, la leggenda, e la carriera di allenatore e di calciatore. Centrocampista fosforoso della Vojovodina, orgoglioso di aver detto no alle proposte di Partizan e Stella Rossa. Sette case, due in Spagna, a Marbella e Almeria, altre a Ginevra, a Bled in Slovenia e Belgrado. Cittadino del mondo, lascia questo mondo a 83 anni, li avrebbe compiuti il 16 maggio. L’ha consumato quel male terribile, superiore e invincibile anche per un vincente come lui, padrone in vita della serietà e del sorriso. Un mito, Vujadin Boskov, competente di pallone e un po’ stregone, quattordici squadre allenate in carriera. Il giro d’Europa a distillare calcio, compagno di dosi di saggezza e dell’inseparabile portafortuna: un gobbetto di avorio appeso al passante del pantalone, nascosto sotto l’abito di norma grigio. E la compagnia immancabile di quelle frasi e di quegli aforismi. Filosofia e teoria esposte in maniera apparentemente maccheronica, lui laureato in geografia. «Un giocatore con due occhi deve controllare il pallone e con due il giocatore avversario». E ancora: «Gullit è come cervo che esce dalla foresta», «Benny Carbone con le sue finte disorienta gli avversari e anche i compagni». «Partita finisce quando arbitro fischia». Piomba in Italia ad Ascoli, incuriosito dai calzini rossi di Costantino Rozzi, il presidente che costruiva stadi in cento giorni nelle città promosse in A e in B. Mancini, Vialli, Vierchowod, che lui chiama il russo. Cerezo, Mannini, Briegel, Lombardo: alla cloche della Samp, in sei anni, conquista uno storico scudetto, una Coppa delle Coppe e perde la Coppa Campioni a Wembley, folgorato nel secondo tempo supplementare da un missile terra aria di Koeman, che la consegna al Barcellona. «Squadra super, presidente super», l’omaggio infinito a Paolo Mantovani, il magnifico architetto del sogno doriano. A Roma sistema sulla ribalta dei grandi palcoscenici calcistico un talentuoso bambino di nome Francesco Totti. Corre l’anno 1998. Approda a Napoli alla guida di un Napoli declinante, consegnato da Ferlaino nelle mani dei Gallo, padre e figlio. Maradona è un ricordo indelebile, ma presenza lontana e comunque ingombrante. Brevissimo, impalpabile il tempo di Vincenzo Guerini alla guida della squadra, 109 giorni e sei partite. Boskov si presenta in grave ritardo, due ore, il giorno della presentazione, e si automulta. «Il calcio è puntualità e serietà. Dopo Bianchi e Bigon, voglio essere il terzo allenatore a vincere lo scudetto a Napoli». Manca l’obiettivo, ma porta allegria, competenza, autorevolezza e 31mila abbonamenti. Perde la qualificazione Uefa una maledetta domenica. Era in Europa al 90’, lo scaraventa all’inferno Del Vecchio, in gol nel recupero a San Siro. Il gobbetto d’avorio stavolta non ha funzionato. Molto bene il primo anno, meno il secondo. Si aggrappa a Fabio Pecchia, da lui battezzato «il nostro avvocato», al brasiliano Freddy Cruz, e deve fare nozze con i ficchi secchi con Freddy Rincon e Fabian Ayala. Il resto è robetta e Ferlaino gli vende Fabio Cannavaro al Parma. Non la manda giù, ma serve lo stesso la frase di circostanza, l’aforismo. «Faremo con talenti in casa, abbiamo nostri giovani, Sbrizzo e Imbriani». Vive a Marechiaro, lui inquilino di una villa a Pieve Ligure, sul mare. Privilegia per le cene “La Cantinella”, è generoso con gli ospiti e non beve vino, mai. Sfata così una leggenda metropolitana nata a Roma, assistito dallo sguardo amorevole della moglie Yelena. Donna colta, gentile, attrice di teatro in gioventù. Una figlia ex hostess sposata con un italiano, Antonio («una persona bravissima»), due nipoti, Dusan e Vuk. Il minore ama il calcio e lui, ormai in pensione, lo accompagna al campo. Il bimbo si allena, mentre lui si mimetizza in tribuna, un anonimo in Svizzera. Dove ha cominciato ad allenare: il titolare slavo della panchina, ammalato, gli consegna il fischietto. «Sei nato allenatore, avrai successo». Una felice profezia. Partito dallo Young Boys, viene assunto in Olanda dal Den Haag de L’Aja. Inciampano nell’errore biografi e cronisti distratti: l’Aja diventa l’Ajax, un lapsus lungo anni, e lui, scaltro, furbissimo, insuperabile nel rapporto con i media, ci marcia alla grande, non corregge né smentisce. Il Real Madrid lo allena però davvero, tre stagioni alla Casa Blanca, dal ’79 all’82, e una finale di Coppa Campioni. Prima e dopo, Saragozza, Gijon, Servette, Perugia, la nazionale del suo amato Paese. «Gli allenatori sono come le gonne, un anno vanno di moda le mini, l’anno dopo le metti nell’armadio». La pietra filosofale di un grande maestro di calcio e di vita. Un grazie e un abbraccio.
Fonte: Il Mattino
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