Riavvolgete il nastro: perché sembra d’essere tornati indietro di una ventina (una ventina?) d’anni, quando il calcio sapeva essere anche poesia, le immagini in bianco & nero e il sapore delle cose buone racchiuse in una filastrocca via etere. S’usava così, un dì: e declamare la formazione diveniva esercizio mnemonico, però pure una dolcissima cantilena. S’andava dall’uno all’undici, le pause (in genere) al «tre», poi al «sei» e infine, tutto d’un fiato sino all’undici. Giocavano quasi sempre gli stessi, i top player c’erano (eccome se c’erano) ma non si chiamavano così: avevano maglie senza nomi e sprigionavano egualmente suggestioni. Si rischiava poco: esisteva pure la pretattica, e guai, ma le incertezze restavano avvolte nel nulla, nella miseria di organici ristretti. Milan-Napoli è la vigilia che non t’aspetti, perché stavolta – osservando Castelvolturno dall’alto, volendo anche da dentro – non c’è aria di (clamorose) novità e sarà (quasi) scongiurato il pericolo del ballottaggio, quel mistero fitto che tiene in vita quattro giorni di bla-bla-bla intorno ad un interrogativo.
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