Correva il 24 Giugno 2014, l’Italia perdeva contro l’Uruguay e per la seconda volta consecutiva lasciava un Mondiale dopo la fase a gironi. E’ abitudine del nostro calcio aspettare il fallimento sportivo per affrontare tematiche salienti per il futuro del mondo del pallone. In quei giorni si parlava del modello tedesco, della fiducia nei settori giovanili, delle strutture da implementare, degli stadi da rifare, dell’overdose di stranieri mediocri, della dittatura dei diritti televisivi. Aspetti reali, spunti interessanti, problematiche da risolvere nel più breve tempo possibile ma a distanza di un anno e mezzo siamo peggio di prima. Tutto si è risolto con un avvicendamento sulla panchina della Nazionale, da Prandelli a Conte, che ha più volte cercato di mettere in risalto le difficoltà riscontrate nel suo ruolo. Sugli stadi qualche piccolo passo in avanti come l’esempio di Udine e tante chiacchiere come i progetti per Roma e Milano.
Riguardo alla filosofia complessiva, il calcio italiano non ha neanche intrapreso la strada del modello tedesco o comunque d’adeguarsi agli standard qualitativi nella formazione calcistica di altri paesi europei. La salute di un movimento non si verifica nelle realtà più forti ma monitorando le fondamenta del palazzo, è lì che il calcio italiano cade a pezzi e nel 2015 ha assorbito altre metastasi.
Bisognava ripartire dalla qualità, dalla meritocrazia, dando la gestione dei club a persone di spessore sotto tutti i punti di vista, da quello tecnico ad amministrativo ed, invece, nell’anno che sta per finire si è scelto l’esempio di “Non è la Rai”, il programma televisivo che tra la fine degli anni ’80 e gli inizi degli anni ’90 ha rappresentato un punto di svolta del mondo dello spettacolo in Italia. Prima di “Non è la Rai” e del trionfo della tv commerciale si poteva “finire nelle case degli italiani” solo se muniti di qualche “patente”, cioè solo se capaci di ballare, cantare, recitare, possedendo delle capacità certificate da titoli o da esperienze.
La tv commerciale ha sviluppato il mito del “tutti possono bucare lo schermo” con i reality, i talent-show e tanto altro. Con qualche anno di ritardo il calcio ha seguito la stessa strada e gli effetti devastanti di questo processo sono evidenti soprattutto nel mondo dei settori giovanili. Dai ballerini o cantanti siamo passati al “diritto per tutti” di diventare giornalisti sportivi, dirigenti, procuratori oppure addirittura calciatori fino a quando naturalmente il terreno di gioco poi non emette le sue inappellabili sentenze.
Dopo l’eliminazione dal Mondiale s’invocava la fiducia nei settori giovanili, si criticava la tendenza ad investire poco nei vivai, oggi un’ampia fetta del calcio italiano, che alberga soprattutto in serie B e Lega Pro, ha scelto un’altra filosofia: non solo non si destinano risorse ai vivai ma da questi ultimi bisogna addirittura guadagnare.
“Convittopoli” da circa quindici anni sta emergendo come prassi scelta da alcune società italiane ma negli ultimi mesi si è sviluppata come la nuova linea della “spending review” delle leghe martoriate dall’ingiusta filosofia economica che ha reso i diritti televisivi la principale fonte d’introiti per i club. Chi non può puntare per bacino d’utenza o per lo scarso appeal della propria categoria sui milioni dei diritti televisivi segue altre strade, dagli “allenatori-sponsor” al “contributo per le spese di convitto” chiesto ai genitori. Non c’è assolutamente nulla da giustificare ma per combattere un fenomeno bisogna comprendere le motivazioni, altrimenti si fa vuota retorica.
Sono i genitori l’anima di “Convittopoli”, il sogno del “figlio dottore” è stato gettato nel camino, oggi vogliono tutti il “figlio calciatore”, fenomeno che mostra in maniera cristallina il deserto culturale in cui viviamo. Molti sono disposti a tutto pur di avere la possibilità di realizzare attraverso il figlio le proprie aspirazioni, il “provino” o l’inserimento in un settore giovanile professionistico, anche a pagare le salate “spese del convitto”. Se una società non ha il budget necessario per portare a casa talenti provenienti da altre regioni, può puntare sui ragazzi del luogo ma, invece, dirigenti “esperti di marketing” hanno capito che si può “succhiare” il sangue ai sogni dei genitori.
Nell’era della precarietà un altro sogno diffuso è quello di diventare il “Mino Raiola” di turno immaginandosi fra qualche anno nelle principali trasmissioni televisive sul calciomercato. Le ambizioni sono legittime ma vanno coltivate con il sacrificio, l’impegno, la programmazione e soprattutto la preparazione. La “deregulation” degli agenti sta producendo dei disastri incalcolabili, il calcio italiano dovrebbe bloccare tutto prima che sia troppo tardi. Nelle gare dei campionati giovanili sugli spalti ci sono più “intermediari” che spettatori disinteressati.
I mestieranti nel calcio sono sempre esistiti, appartengono alla fiera dei sogni che da sempre accompagna il mondo del pallone ma in passato c’erano delle regole non scritte rispettate in modo scrupoloso. Oggi, invece, la cancellazione dell’esame per l’iscrizione all’albo e le spinte competitive hanno annullato l’appartenenza ad una categoria e stanno sviluppando una giungla che inizia sui campi dei settori giovanili e finisce nel “mercato delle procure”, negli intrighi da lauti ingaggi che affliggono i talenti corteggiati da vari procuratori.
Sullo sfondo del precario stato del calcio italiano c’è sempre il dramma delle scommesse che ogni estate si risolve con qualche retrocessione d’ufficio, dei ripescaggi, il clamore di qualche scandalo e poi tutto torna come prima. Il “betting” non ha freni, ormai in Italia si può giocare anche su serie D e Primavera, le partite dagli esiti molto strani, con rimonte incredibili, continuano ad esserci, qualche condannato torna in campo come se non fosse successo nulla e nessuno s’indigna. Fino al prossimo scandalo, all’inchiesta che fa tremare, tutti bravi poi a tirar fuori le frasi retoriche sul cambiamento del calcio italiano senza che nessuno s’impegni quotidianamente per realizzarlo.
Ciro Troise
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