Una delle legittime critiche al Governo (non le strumentalizzazioni) è che, quando ormai è passato più di un mese dall’inizio dell’emergenza, sono pochissime le misure concrete che hanno già aiutato i cittadini a fronteggiare le difficoltà economiche e sociali. La stessa critica vale per il mondo del calcio: non c’è un’idea che ha messo d’accordo tutti, una proposta che vada oltre il dibattito sulla ripartenza. Nella fase 2 ci sarà anche il calcio, il 4 maggio è il giorno del nuovo inizio, sarà superata la palla posta davanti al motore della storia da presidenti sciacalli che invocano di fermare tutto affinchè possano salvare le proprie squadre e portare a casa interessi individuali come il taglio indiscriminato agli stipendi. La priorità è l’aspetto medico, mercoledì la Commissione tecnico-scientifica della Figc si riunirà nuovamente per accelerare sotto il profilo della stesura del protocollo che deve disciplinare la ripresa degli allenamenti.
Le società si stanno organizzando per attrezzarsi sotto tutti gli aspetti: test sierologici, tamponi, visite cardio-polmonari, il motore è già partito. L’idea delle due fasi non è congrua con la portata storica del fenomeno che ha cambiato la nostra vita, il concetto per cui ora bisogna pensare a ripartire e poi in futuro si parlerà delle riforme non è sostenibile. Il calcio va cambiato, altrimenti non reggerà l’impatto con una crisi profonda, pesante perché dopo lo stop bisognerà poi adattare questo sport ad una fase di transizione pesante e complicata. La riforma del pallone deve coinvolgere tutti i livelli, dalle competizioni internazionali all’attività di base, in una logica “glocal” dove si fondano l’aspetto globale con quello locale. I calendari sono ingolfati, si gioca troppo e sarà difficile coniugare l’attenzione massimale alla tutela sanitaria dopo il Covid-19 con i ritmi attuali del calcio internazionale. Le soluzioni ci sono: revisione delle regole sui diritti televisivi e riduzione delle squadre nei campionati nazionali, introduzione delle cinque sostituzioni per dare senso anche all’utilizzo della panchina lunga che andrebbe introdotta anche nelle coppe europee. L’equilibrio delle forze in campo in qualsiasi competizione sportiva è fondamentale per renderla avvincente, la crisi post coronavirus rischia di alimentare la sperequazione a vantaggio dei club più ricchi. Questo tsunami arriva in un mondo dove è diventato consuetudine la vittoria nei campionati nazionali della squadra che ha il fatturato più alto e spende di più nel monte ingaggi, però, poi abbiamo tutti nostalgia del Cagliari degli anni ’70, della Sampdoria di Vialli e Mancini, del Verona di Bagnoli, del Napoli di Maradona. È necessario introdurre il salary cap, dare uno stop alla spesa sugli stipendi per limitare il divario, riformare l’organizzazione dei diritti televisivi, rivedere la legge sugli stadi e accelerare sotto quest’aspetto in modo da essere pronti quando il vaccino o altre scoperte scientifiche sui farmaci ci consentiranno di riempire nuovamente gli spalti, introdurre l’obbligo d’investire almeno il 10% del fatturato sul settore giovanile. “Nessuno si salva da solo” è lo slogan di queste settimane, tutti a chiacchiere sembrano seguire l’indirizzo dettato da Papa Francesco ma poi nei fatti ognuno ha come propria religione di riferimento soltanto l’interesse individuale. Il calcio va riformato senza tralasciare nessun livello della piramide, serve un intervento generale che coinvolga anche il mondo dilettantistico e l’attività di base. Nelle scuole calcio e in varie categorie dilettantistiche non è obbligatorio neanche il medico sociale, si tratta di una regola inaccettabile. Qualsiasi attività sportiva deve avere un medico di riferimento, l’obiezione sui costi è insostenibile: la lezione inflitta dal coronavirus è che non si può risparmiare sulla salute delle persone.
Ciro Troise
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