Maurizio Sarri, tecnico del Napoli, ha concesso una lunga intervista al Corriere dello Sport. Per l’allenatore azzurro si è mosso un intervistatore d’eccezione: l’allenatore azzurro s’è ‘confessato’ ai microfoni di Walter Veltroni. Ecco la loro lunga chiacchierata:
Quanta fatica avrà fatto quest’uomo con la barba incolta che mi accoglie sorridente a Castelvolturno nel suo ufficio di allenatore del Napoli per arrivare fino a qui? E quanto sarà stato contento, dentro di sé, nel vedere il suo nome a caratteri cubitali nei titoli dei giornali che forse un tempo leggeva al bar di Figline sognando un mondo e un lavoro che sentiva tanto suoi quanto inarrivabili? Ha faticato, Maurizio Sarri, ha faticato tanto. Ha studiato, Maurizio Sarri, ha studiato tanto. Ha masticato calcio con la stessa feroce impazienza con la quale tortura le sue sigarette, esercizio necessario forse per mascherare una dote in via di estinzione, la timidezza.
Sarri non ha nulla dello stereotipo dell’uomo di successo di questo tempo. Credo se ne freghi riccamente dell’immagine e sia fiero di quest’aria scarmigliata, che dice, a chi lo guarda, “segui la sostanza”. Che forse è la linea guida della sua vita nel calcio e non solo. Ha imparato sui campi pieni di polvere a pensare calcio e forse al suo tavolo di uomo di banca a progettare strategie e a costruire opportunità. Insomma mi fa pensare a Fabrizio De Andrè, non ai Duran Duran. A Tom Waits, non a George Michael.
Sarri è un uomo curioso delle cose del mondo e non solo di quelle dello sport al quale dedica se stesso. Legge, pensa, ama capire. Credo faccia lo stesso con il football. Altrimenti, avendo giocato al massimo in serie D, non sarebbe diventato un allenatore così forte da imporsi in poco tempo “facendosi il nome”. Un nome che, prima, non era mai comparso su nessuna figurina. E’ un tosco-napoletano, ironia e calore, come se queste due identità e questi due caratteri tipicamente italiani fossero scritti nella sua nascita e nel suo destino.
«La mia è una famiglia di ciclisti, poco aveva a che fare con il calcio. Mio padre è stato corridore professionista con la Frejus. Anche io ero appassionato della bicicletta. Ma a 14 anni ho cominciato a giocare al calcio, nella squadra del mio paese, il Figline. Ho iniziato da difensore esterno, poi sono stato schierato come centrale. Ma, diciamoci la verità, non sfondavo, non ero un campione. Il massimo torneo in cui ho giocato era la serie D. Intanto mi cercavano le banche, lì ero davvero capace. Così cominciai a lavorare per portare un po’ di soldi a casa. In quel periodo lavoravo, studiavo, giocavo. Poi mi sono arreso, era troppo, tutto insieme».
Mi racconta della sua famiglia?
«Mio padre era un operaio gruista, lavorava nella ditta che costruiva l’Italsider di Bagnoli. Per questo io sono nato, come un presagio, a Napoli, e qui ho vissuto fino ai tre anni. Mamma lavorava nella camiceria, come molte donne in quei tempi, nella mia Toscana. Tornammo a Figline nel 1964. Era una comunità unita e solidale. Ci conoscevamo tutti, ci aiutavamo tutti. Sa quella storia che oggi sembra una leggenda, il lasciare le chiavi attaccate alla porta? A Figline era normale. Giocavo per ore in strada al pallone con gli amici. E poi si andava all’oratorio, che per intere generazioni di ragazzi è stato, ovunque, la vera scuola calcio, il centro federale che non esisteva. A Figline c’era Don Aldo. Era un grande. Lui arbitrava, ma se c’era bisogno che giocasse si toglieva in un battibaleno la tunica e sotto aveva già la tuta. Era il cugino di Mauro Bellugi e questo aumentava la sua autorità in materia calcistica. E dove ha giocato Bellugi? Nel Napoli. Vede, tutto torna… Era proprio destino che io finissi qui…».
E quando comincia ad allenare?
«Gli ultimi anni della mia carriera da calciatore, niente di che, li ho fatti a Stia, in prima categoria. Durante il campionato mi chiesero anche di allenare, avevo trentuno anni e una certa predisposizione a organizzare e forse a dirigere. Pensi che una volta, con gli allievi del Figline, dovevamo giocare, la domenica mattina, una partita importante. Il sabato però l’ allenatore litigò violentemente col presidente e si dimise. Per solidarietà con lui se ne andarono anche i dirigenti accompagnatori e tutti gli adulti. Per fortuna restò l’autista del pullman. Insomma andammo al campo degli avversari e io feci tutto, decisi la formazione, scrissi la nota e dissi all’ arbitro che l’allenatore purtroppo non poteva esserci perché si era sentito male, una cosa assai seria, ed era restato in pullman. Faccio notare che avevo quindici anni e pure che poi la vincemmo quella partita…».
Le altre tappe del suo inizio?
«Allo Stia avevo detto che avrei tenuto la squadra qualche settimana ma poi mi appassionai. Mi piaceva molto più allenare che giocare. Passai al Monte San Savino. E vincemmo tutti i campionati, passando dall’eccellenza alla serie C. Pensi che il presidente si chiamava come lei, Veltroni, Giorgio Veltroni. Ma io ero diviso. Lavoravo in banca, mi occupavo dei cambi ed ero bravo. Manovravo decine di milioni e difficilmente sbagliavo operazioni. Avrei avuto una bella carriera, credo. E intanto avevo un buon stipendio. Ma allenare era infinitamente più bello. E poi con l’arrivo dell’euro c’era poco da giocare con i cambi. Insomma parlai con la famiglia e decisi. O Il calcio o la banca, mi dissi. E scelsi, non senza sofferenza. Passai alla Sangiovannese, sempre in zona, nell’aretino».
E lì incrociò Allegri, altro segno del destino…
«Sì, ci fu una partita tra Sangiovannese e Aglianese, la squadra che Max allenava. Finì zero a zero, senza neanche un tiro in porta. Una noia mortale. Alla fine uno degli spettatori, che era anche un mio amico, gridò “Se siete allenatori voi due…”».
Per continuare la linea dei destini incrociati lei andò ad allenare a Pescara, dove Allegri aveva giocato…
«Con la Sangiovannese avevamo vinto la C2 ed eravamo terzi in C1. Poi morì il presidente e la società andò in crisi. Così andai a Pescara…».
È più duro fare strada per un allenatore che non è stato giocatore di alto livello?
«Ci sono due fattori che possono, ma solo possono, rendere più facile l’avvio della carriera di un allenatore: il primo è il nome, ovviamente. Il secondo è il sistema delle conoscenze che, inevitabilmente, aiuta. È più difficile, molto più difficile, fare strada per chi non ha avuto queste opportunità. Che comunque, sia chiaro, si sono conquistate sul campo, alla fine unico giudice. Se molti miei colleghi hanno giocato in serie A vuol dire che erano più bravi di me, da calciatori. Ma non necessariamente essere stato un giocatore di serie A significa essere per definizione più bravo ad allenare di chi viene dai campi di provincia».
Il calcio si studia? Si impara anche sui testi, come la filosofia o la scienza?
«Sì il calcio, come tutto, richiede analisi, pensiero, riflessione oltre all’esperienza vissuta. Io ho studiato molto. In particolare il lavoro e le innovazioni di Arrigo Sacchi che è stato un vero rivoluzionario del calcio, e per questo mi piaceva. Lui ha cambiato, in Italia, il modo di giocare. Io ho letto molto sulla tecnica e mi capita ancora di passare ore chiuso in una stanza a pensare ad uno schema, a come sfruttare nel modo migliore le palle inattive… Ma è un pensiero in movimento, non fisso. Io ho cambiato, nel senso di far evolvere, il mio modo di pensare calcio rispetto a dieci anni fa».
Cambiato in quale direzione?
«Ero più rigido. Ero più portato a pensare che la tattica fosse un valore assoluto. Ora so che il bambino che c’è in ogni giocatore non va mai spento. Non va mai represso l’aspetto ludico, quello per il quale il calcio si chiama, appunto, gioco del calcio. Quando un giocatore si diverte rende il doppio, ed è uno spettacolo meraviglioso».
Quale è la novità che lei ritiene di aver portato nel calcio italiano?
«Sarei un presuntuoso se le rispondessi, forse possono dirlo meglio altri. Io vengo dal basso e forse ho avuto meno condizionamenti, sono stato mentalmente più libero di inventare metodi, schemi e logiche mie».
Prandelli, nella intervista che mi ha rilasciato per il Corriere, sostiene che gli allenatori che hanno più rivoluzionato il calcio non sono stati grandi calciatori. Pensava a Sacchi, a Mourinho. Vale anche per lei?
«Questo non lo so, lo dirà il tempo. Ma credo che Prandelli avesse ragione. Chi non è stato in squadre di livello, non ha conosciuto schemi e abitudini di grandi allenatori del passato, forse è più libero di inventare. Forse è persino costretto ad inventare qualcosa di nuovo. In definitiva è meno conservatore».
Qual è il giocatore con cui lei ha potuto parlare di più, starei per dire il più intelligente o il più colto che ha incontrato?
«Baiano aveva una velocità di pensiero impressionante. Reina è una persona speciale, davvero molto intelligente. In campo e fuori. Con Goretti, che giocava nel Perugia, si poteva parlare di tutto, anche di temi lontani dal calcio».
Lei legge molto?
«Come le ho detto studio e consulto libri di calcio, come l’ultimo di Sacchi. Ma poi mi piace la letteratura. Ho fatto un percorso, sono partito da Bukowski, poi sono arrivato a John Fante e ora sto divorando Vargas Llosa, che mi piace molto. Leggo Erri De Luca e Maurizio de Giovanni, che mi aiuta a capire ancora meglio Napoli».
Com’è allenare a Napoli?
«Bello e duro. Le sensazioni che ti può dare la tifoseria sono uniche, un calore spettacolare. Ma è un ambiente umorale, come è sempre stata questa città fatta di passioni e delusioni. O tutto è positivo o tutto è negativo. Io cerco di tenere il filo di una atmosfera in cui ogni tanto bisogna anche estraniarsi».
Quanto pesa l’emotività nel calcio italiano, quanto impedisce progetti innovativi che hanno bisogno di tempo?
«Questa frenesia, per la quale un allenatore è un cretino se perde due partite o un genio se ne vince due e un attaccante una schiappa se sbaglia un rigore e un genio se fa un gol qualsiasi, rende molto difficile far vivere progetti e quindi far evolvere il calcio. I tre anni in cui sono stato ad Empoli sono riuscito a impostare un ciclo che ha dato dei buoni frutti. Non eravamo condizionati dall’ultimo risultato. Lo stesso spero di fare a Napoli dove ho trovato una società organizzata e un clima positivo. Il calcio o è un progetto o non è».
Quale è stato il momento più bello della sua carriera di allenatore?
«Tutti pensano che sia la categoria a fare la gerarchia delle emozioni. Non è così. Qualsiasi campionato vinci, in qualsiasi serie o divisione, è il culmine di un anno di lavoro, di fatica, di condivisione con la squadra, lo staff, il magazziniere. Ogni campionato vinto è stata una gioia identica. Ma io brucio la felicità in trenta secondi, penso subito alla nuova sfida. Mi interessa più il dopo che il prima».
Cosa dice ai giocatori per preparare la partita?
«Dipende da come percepisco lo spirito del gruppo. Se li vedo tesi, contratti, nervosi dico loro di divertirsi. Se vedo che affrontano una partita sottogamba cambio registro. La prima cosa è far prendere fiducia in se stessi e nel gruppo ai giocatori. La psicologia collettiva è importante come lo è seguire, senza intrusività, ogni atleta. Nella psicologia e nella concentrazione di un calciatore contano molti fattori, anche quelli extra calcistici. Un allenatore non è solo un tecnico è anche un uomo. E talvolta deve essere fratello, amico, padre».
Ha fatto così con Higuain? Sembra rinato, sereno e sicuro.
«Si diverte. Io lo stimolo a divertirsi. È un fuoriclasse ed è potenzialmente il giocatore più forte che io abbia mai allenato».
Qual è, secondo lei, il problema principale del calcio italiano?
«Sono diversi. In primo luogo le strutture. Gli stadi sono quelli del dopoguerra, con le piste di atletica, senza quindi il clima necessario perché i giocatori sentano i tifosi vicini e le famiglie possano tornare serenamente allo stadio. Poi difetti di mentalità, l’emotività di cui abbiamo parlato che rende tutto fragile e precario. Far esordire un ragazzo in serie A oggi è difficile, esposti come sono questi ragazzi a processi se sbagliano una palla. Un tempo c’era meno pressione. Per questo i nostri giovani non crescono e i campionati sono pieni di giocatori stranieri anche di livello basso».
Chi è il più forte dei giovani calciatori italiani?
«Per me Rugani. Ha una capacità di applicazione straordinaria. Io lo feci esordire a 18 anni. Sarà un giocatore molto importante per il calcio italiano del futuro».
E tra i ragazzi del Napoli?
«Luperto è un talento che tengo d’occhio. Si prepara già con noi, con la prima squadra. Da gennaio abbiamo concordato, con la società, di far allenare ogni settimana uno o due ragazzi della Primavera con i titolari».
Pronunciamo la parola impronunciabile, scudetto?
«Non mi avrà, per me resta impronunciabile. Abbiamo iniziato un percorso. Ricordiamo che veniamo da un quinto posto e teniamo i piedi per terra. Per volare c’è sempre tempo. È un campionato aperto, senza dominatori. Ci sono diverse squadre che competono a pari livello. Posso dirle che io sono rimasto molto impressionato dalla Fiorentina».
La sua formazione ideale?
«Jascin, Djalma Santos, Thuram, Beckenbauer, Facchetti; Tardelli, Pirlo, Neeskens; Maradona, Van Basten, Cruyff. Allenatore Arrigo Sacchi».
Cosa pensa di Maradona? Le ha fatto piacere che si sia scusato per le dichiarazioni su di lei?
«Per me, come per tutte le persone che amano il calcio, Maradona è un idolo, un’idea del calcio. La dichiarazione che ha fatto mi ha emozionato. Ora il mio prossimo obiettivo è conoscerlo. Sarebbe un onore, per me».
Cosa significa essere rivoluzionari nel calcio?
«Andare contro le convenzioni. Immaginare quello che ancora non c’è. Ma poi servono i risultati, ne sono consapevole. In fondo è così sempre, anche per le rivoluzioni vere».
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