Senza trucco, senza inganno. Tutto avveniva e brillava alla luce del sole (o dei riflettori) e rapiva talmente tanto, che da subito ne finì affascinato anche lo stesso Maradona. Azioni veloci quanto i pensieri, che si traducevano in traiettorie illuminanti, il Pibe (e non solo lui) la “palla magica” di Ciccio se la ritrovava, come legata ad un elastico, direttamente sul sinistro. E poi ne faceva quel che voleva. Difficile credere che quel ragazzo serio e un po’ taciturno, prelevato dalla Triestina a 26 anni come un quasi signor-nessuno, non avrebbe fatto manco mezza piega passando al Napoli. Francesco Romano arrivò a campionato già iniziato, quello del primo scudetto della storia azzurra (86/87) e con lui il Napoli volò ancora più in alto. Molto, ma molto più su.
«Pensavo di finire al Torino, invece fui preso dal Napoli. Devo dire però che arrivai in una squadra già estremamente competitiva, il mio innesto fu facilitato dall’insostituibile presenza di Diego e da tanti altri campioni. Mi ritrovai immediatamente a mio agio, subito mi fu chiaro cosa avrei dovuto fare in campo e come. Lanciare Diego nel migliore dei modi, nonostante avesse sempre due, tre uomini alle costole. Arrivai a Soccavo di martedì e la domenica già scesi in campo all’Olimpico, contro la Roma. Vincemmo proprio con un gol di Maradona, nel quale ci fu pure il mio zampino. Certo, qualche palpitazione all’inizio fu inevitabile: passare dalla Triestina in B, ad uno squadrone in lizza per lo scudetto, avrebbe potuto rappresentare un pericoloso salto nel buio. Ma andò tutto bene. Gli anni di Milan mi avevano temprato, e poi caratterialmente, essendo napoletano d’origine, non ci misi molto ad ambientarmi. Al San Paolo gli allora ottantamila e più sulle tribune mi davano la carica giusta. Mi sentivo finalmente a casa».
La sintonia col Pibe fu fulminea, sul suo conto Maradona spese parole lusinghiere sempre rinnovate nel tempo, trovandole pure un soprannome: Tota.
«Sono momenti che ricordo con grande emozione. Già dopo la prima partita, Diego negli spogliatoi urlò a squarciagola: “Finalmente abbiamo trovato la nostra Tota!” . Seppi poi che così chiamava affettuosamente sua madre».
Alla fine, nella sua avventura azzurra, non ci fu solo lo scudetto, ma anche la Coppa Uefa ‘88/89.
«Sì, certo. Quella fu la mia ultima stagione nel Napoli, riuscii in extremis a vincere anche un trofeo continentale. La gioia fu immensa, anche se poi m’infortunai seriamente».
Ci sono storie che si rinnovano, ci sono coincidenze e similitudini che non possono passare inosservate. Lunga gavetta, playmaker, nitida visione di gioco, piedi ispirati: tutto ciò la dipinge in pieno, ma potrebbe rappresentare anche un tipo alla Valdifiori. Il primo acquisto dell’era-Sarri.
«Concordo. Anche se di gavetta ne feci meno. Ma se lui si rivedesse in me non potrei che esserne orgoglioso. Valdifiori alla Romano è una cosa che ci può star bene. Apprezzo molto sia il calciatore che l’uomo, mi sembra peraltro un ragazzo con i piedi per terra. Piedi che funzionano molto bene. Se dovesse riuscire a superare anche l’esame-piazza napoletana, farà molta strada»
Le piace l’idea del ritorno all’antico, quella del cosiddetto regista classico?
«Come potrebbe non piacermi. Se si vuole lottare per un campionato di vertice, gli equilibri diventano fondamentali. Soprattutto quelli di centrocampo. Un tipo come Valdifiori è l’ideale per il modulo di Sarri. La punta bassa del rombo. Poi ci sarà sempre da vedere se la figura geometrica sarà. Io reputo di sì».
Come andrebbe completato questo centrocampo?
«Non sta a me dirlo. Sarri, che ammiro molto per idee, professionalità ed umiltà, ci starà già lavorando. Posso solo aggiungere che darei una nuova opportunità a Jorginho, un ragazzo che ha grandi numeri e che potrebbe anche tranquillamente agire da mezzala».
Saponara, Allan e Soriano, sono alcuni fra i nomi circolanti. Che ne pensa?
«Tutti molto intriganti. Il primo pure da interno, gli altri due anche mezzali».
Più avanti ci sarà baruffa, come se ne uscirà?
«Sarri saprà come, e arriverà a far giocare anche il Napoli, come l’Empoli, da squadra. Basta che non mi si tocchi però Insigne, per lui ho una predilezione. Stimo molto anche Gabbiadini».
E, per l’appunto, stop all’internazionalizzazione, si torna a privilegiare il provincialismo.
«Sì, ma non è un passo indietro: è solo un primo step per arrivare ad una internazionalità migliorata. Costruita cioè con più prodotti nostrani. Meglio, no?».
Fonte: Corriere dello Sport
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