Le bandiere esistono: e in quel San Paolo inseguito sin dalla culla, ora Paolo Cannavaro può lasciare sventolare le sue duecentoquarantadue presenze, il simbolo di una fedeltà mostrata pure a distanza, da «emigrante», e poi esibita con fierezza nella buona e soprattutto nella cattiva sorte, quel baluardo ostinato di se stesso e del proprio senso d’appartenenza capace di sfidare i pregiudizi (altrui) e i luoghi comuni, un bunker impenetrabile ed insonorizzato, un corazziere – al di là del fisico – sul quale lasciar scivolare qualsiasi affrettato giudizio. E pure le favole esistono: perché a rilegger la carriera e a rivederla perbene, il «vecchio» che avanza va a passo spedito sin dal debutto – anno di grazia 1999 – e da un Millennio all’altro ha avuto in testa una ed una sola idea meravigliosa, concretizzata poi nel 2006 con il ritorno da figliol prodigo e ora infiocchettata da quella fascia che sul braccio gli sta di un bene. Cannavaro II è una vendetta servita a fuoco tutt’altro che lento, in un settennato che ormai contiene un’enciclopedia d’emozioni che a raccontarle si fa tardi e però non ci si annoia: perché va bene la promozione in serie A, e poi la qualificazione in Intertoto, e poi il passaporto prima per l’Europa League e poi per la Champions, e poi gli ottavi tormento ed estasi con il Champions e poi la Coppa Italia, ma le strade del Signore restano infinite e conducono laddove ristagna la fantasia popolare, dunque anche la sua ch’è uno di loro, della gente, del San Paolo, di quello spicchio di terra coltivato a modo proprio, resistendo operosamente e poi stingendo i denti e infine ripartendo a petto in fuori per andare a cogliere la gloria nascosta in un drappo. Le bandiere resistono.
NAPOLI – Cannavaro, e ora come la mettiamo?
«Glielo dico subito: se lei pensa di farmi pronunciare quella parola, è fuori strada. Fatica sprecata. Qui siamo scaramantici, io per primo, e quindi…».
Vabbè, un desiderio tricolore si può pure svelare.
«Un’altra domanda».
P artiamo da lei: il capitano, anche in virtù del numero di presenze.
«E anche il simbolo, ora lo posso dire ed in assoluta umiltà. Perché prima, quando me lo chiedevate, mi sembravate un po’ esagerati. Stavolta no, perché avverto dentro di me qualcosa di diverso e me ne accorgo anche nei rapporti con i compagni, con la gente. Non sono di troppe parole, ma sono il primo che si presenta all’allenamento e l’ultimo che se ne va perché mi sembra l’unico bel modo per dare un buon esempio».
Dove vuole arrivare?
«Ho il contratto in scadenza nel 2015, ma confido nella salute per rinnovare ancora. Il desiderio è di emulare Zanetti, essere ancora protagonista a quell’età e con quell’energia, con quell’entusiasmo. Invecchiare, calcisticamente, con la maglia del Napoli addosso. Avvicinare quanto più possibile Bruscolotti e Juliano, che restano due bandiere irraggiungibili. E almeno entrare tra i primi dieci di tutti i tempi. E, ovviamente, vincere».
L’ha detto…
«E’ stato così bello a Roma, che ci ho preso gusto. E posso garantire che è piaciuto a tutti noi. Un capitolo indimenticabile. Ero in mezzo al campo, vedevo il palco e pensano: non è possibile. Mi rivedevo bambino, felice per la vittoria del Napoli in Supercoppa: quella sera lì io sognavo ad occhi aperti però non ero riuscito a pensare che ce l’avrei fatta».
E quando tornò, si portò la Coppa Italia a casa.
«E a chi dovevo darla? L’ho tenuta per due giorni, l’ho lavata, l’ho lucidata. Sono venuti Aronica e Cavani a fotografarsi al suo fianco. L’abbiamo accarezzata. Poi l’ho portata in sede, perché quella è stata la vittoria di tutti, e l’ho lasciata lì. Nessuno se n’è accorto ancora, ma è un pezzotto, come si dice da noi, un’imitazione. Quella vera ce l’ho ancora io….».
E’ un vizio di famiglia, Fabio andò a dormire con la coppa del Mondo.
«Siamo ragazzi di cuore…».
A proposito, la domanda non la insegue più…
«Ora no, ma ce n’è voluto. Sono stato il fratello di Fabio non so per quanto tempo. Un modo – direi gratuito – per ferire è l’allusione, che diviene offesa. Io sono e rimarrò il principale tifoso di quello che ritengo il più grande di sempre e in casa c’è unione, dunque sbarazziamo il campo da qualsiasi ipotesi: però, provate a pensare, che genere di amarezza potessi provare nel cogliere le insinuazioni. A un certo punto, m’era venuta pure un’idea: mettere sulla maglietta solo il nome, Paolo. Ma sapevo che ce l’avrei fatta, che si sarebbero ricreduti. Poi l’ha risposta l’ho data sul campo».
Tanto per restar nel tema, Fabio che fa?
«E’ partito ora per Dubai. Sta studiando per diventare grande anche da dirigente o da allenatore, perché lui qualunque cosa faccia sarà speciale».
E invece Paolo si difende da Hamsik, che le sta dietro una ventina di presenze…
«La settimana scorsa è venuto al campo e m’ha avvisato: guarda che ti prendo, m’ha detto. Intanto, ho un bel vantaggio. Ma se dovesse acchiapparmi io infilo nel conteggio i minuti giocati…Detto ciò, vi aggiungo: è un un fuoriclasse, una persona staordinaria, un uomo vero, anzi è un fenomeno. S’era capito subito: ha un’intelligenza e una facilità di gioco quasi senza eguali».
Dicono di voi: sono diventati maturi.
«Lo saremo quando avremo smesso di perder punti in gare apparentemente facili, quelle che l’anno passato ci sono costate la qualificazione in Champions League. Però sembra pure a me che qualcosa sia cambiato ed il merito è di Mazzarri, della sua capacità persuasiva: lui non spiega, convince. In genere, con gli allenatori, c’è il contraddittorio – sereno – mentre sulle indicazioni del mister non c’è mai un sospetto. Si prova, si fa. Ci ha trasmesso sicurezza, ci ha dato continuità».
«Infilammo un periodo negativo, rischiavamo di staccarci dal gruppo. Poi arrivò De Laurentiis a Castelvolturno, ci parlò da fratello maggiore, ci tranquillizzò, ci tolse da dosso lo stress del risultato ad ogni costo: avvertimmo la fiducia della società, rappresentata in quel momento dalla massima figura che si mosse con tatto, con intelligenza. E cogliemmo cinque vittorie consecutive. Abbiamo perso la qualificazione in Champions in una partita, però abbiamo dato ulteriore dimostrazione della forza del club».
Stavolta vi collocano come l’anti-Juve.
«E’ il campionato più incerto ed equilibrato che mi sia capitato di vivere e anche di osservare. Siamo in tanti che vogliono essere protagonisti, non so quanti ce la faranno. Ma se la Juventus mostrerà la stessa fame della passata stagione, rischierà di non perdere neppure quei sette-otto punti che ti costa la Champions. E allora sarà complicato. Ma intanto le prime due giornate hanno fatto emergere qualche curiosità: la Fiorentina mi è piaciuta tanto ed ha una sua identità; e la Roma, che ho visto in tv, mi incuriosisce: gioca, diverte ed ha un allenatore particolare».
Serie A senza Ibra, senza Thiago Silva, senza Del Piero…
«E’ un campionato più povero ma finiremo per diventare più ricchi, perché avranno molte opportunità i nostri giovani. Penso a Insigne, che ha talento ed anche la testa sul collo. Vedrete. Ma lui sa che il difficile sta per arrivare. E’ comunque vero che se ne andato l’attaccante più forte in circolazione, Ibra, ma le emozioni non mancheranno».
…Senza Lavezzi…
«E’ un amico e resterà tale. L’ho sentito per telefono, i rapporti restano vivi. Ho il sospetto che un po’ Napoli gli manchi ma ha voluto provare un altro calcio e va rispettato. Ci ha dato tanto, nessuno dimentica. Però bisogna guardare avanti e quel Pandev là vedrete di cosa sarà capace».
Il nome di un centravanti che l’ha impressionata.
«Su tutti, Dzeko: ha fisico e persino agilità, ha il senso del gol, fa reparto da solo, non lo sposti. Mi piace tanto».
E un goleador che ha ottenuto meno di quanto meritasse.
«Pellissier e non ho dubbi. Ha una media regolare. Secondo me, segnerebbe in qualsiasi squadra. Fate caso al modo in cui gioca, alla capacità di sfuggire, al fiuto che ha».
La miglior punta in circolazione.
«Cavani: è una forza della natura. Fa il centravanti, fa il difensore, è generoso, è trascinatore».
Scommetta su un talento.
«Posso puntare con sicurezza su Vargas e non è un discorso fazioso: io lo vedo in allenamento tutti i giorni, lo affronto, so quello che ha dentro, la rapidità d’esecuzione, l’istinto. Garantisco io, se posso permettermi: è imprendibile. Il tempo è con lui».
Schegge del passato…
«Ho vissuto momenti delicati, quelli della contestazione personale, al termine di una sfida al San Paolo con il Torino. Mi sono indurito, ho reagito, sono qua per il carattere».
A Crotone, con Reja…
«Fu un momento d’ira. Finì nello spogliatoio. Chiesi scusa: impossibile non voler bene a Reja».
Continua a pensare alla Nazionale?
(alzata di spalle…sorriso) . «Continuo a giocare e spero di farlo sempre meglio».
La sua Napoli è?
«Tanta casa e famiglia. Mia moglie, che non si perde una partita, e i miei figli che vengono quando decidono, perché a loro piacere pure vedermi in tv, comodamente sdraiati. Ma a Roma, quando abbiamo vinto la Coppa Italia, c’erano tutti, tranne Sofia, ch’è piccolissima ancora. Ma giro, amo la città e la mia gente, passeggio in centro, ovunque e ci sto bene, anzi benissimo».
Un papà difensore…
«Sceglie accuratamente. Poi viaggia, quando può va a Dubai. Riusciamo a stare tutti assieme a Natale e a Capodanno, siamo sempre stati in giro. Mia sorella è stati per anni a Firenze, ho tredici anni di differenza da lei ed ora riusciamo a vederci di più. Fabio è partito ragazzino, io l’ho raggiunto che avevo diciotto anni. Le feste sono l’occasione giusta per ritrovarsi tutti ma proprio tutti».
Riletto tutto ciò che ha detto, viene naturale chiederle: soddisfatto di quello che ha ottenuto?
«Macchè! Contento sì ma non ancora appagato. Il 20 maggio ho scoperto sensazioni che non riuscirò mai a raccontare come vorrei. Vincere qua è meglio che altrove: un napoletano che alza la Coppa Italia, ma ci pensate?».
Fonte: Corriere dello Sport
La Redazione
A.S.
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