Il 26 dicembre Antonio «Totonno» Juliano, il più grande leader del calcio del Sud, compirà 70 anni (anche se per l’anagrafe è nato il primo gennaio). Ne sono passati quasi 50 dal giorno in cui si è conquistato un posto da titolare nel Napoli. Era il 17 febbraio 1963, Napoli-Inter 1-5. Non è più uscito fino al 7 maggio del 1978, la domenica della sua ultima partita al San Paolo, contro il Milan. Dal 1966 della squadra azzurra era diventato il capitano.
Quanto ha pesato quella fascia?
«Moltissimo. Io sono napoletano ed era un orgoglio per me giocare con la squadra della mia città e del mio cuore. Ronzon andò via e Pesaola scelse me. Avevo 23 anni. Ai miei tempi contava molto più questo che gli ingaggi».
I suoi primi passi?
«Nella Fiamma Sangiovannese, la squadra di quel galantuomo del comandante Russo. Pochi anni e venne a vederci quello che del settore giovanile del Napoli era il factotum, Lambiase. È stata la mia svolta».
L’inizio della leggenda in azzurro?
«Solo in due momenti, a parte la mia ultima stagione giocata a Bologna per ripicca a Ferlaino, ho pensato di andar via da Napoli: la prima volta, dopo che il dottor Scuotto, il mio primo presidente, aveva rifiutato la mia richiesta di rimborso spese. Andavo su e giù da San Giovanni, cambiando 4 tram al giorno per arrivare ad Agnano. Lui mi cacciò dall’ufficio. Poi in estate mi richiamò: avevo quasi deciso di smettere».
La seconda volta?
«Prima della partenza per il Messico incrociai il paron Rocco, un mito. Mi disse: le va di venire al Milan? Gli risposi che a Napoli guadagnavo bene. E lui replicò sicuro: noi spendiamo 700 milioni all’anno, questa cifra non ci spaventa. Poi non si fece più nulla».
È stata dura conquistarsi un posto da titolare?
«Tanto. Soprattutto per colpa di Eraldo Monzeglio. Lui non mi sopportava. O meglio non sopportava quelli giovani, diceva che dovevano aspettare di diventare grandi: prima del mio esordio contro l’Inter mi diede due biglietti gratuiti per lo stadio da regalare ai miei familiari. Pensai di essermeli conquistati a vita: macché, sette giorni dopo si rifiutò di darmeli. Mi disse che non ne avevo diritto perché ero un ragazzino. Ecco questo era Monzeglio».
Che ricordi ha di quel debutto?
«L’Inter di Helenio Herrera era per me una squadra di marziani: li avevo visti nelle figurine, ma dal vivo era tutti molto diversi».
Il primo anno a Napoli andò tutto storto?
«È stata la mia fortuna: alla fine della stagione finimmo in serie B. Ma Pesaola dicevo che avevo stoffa, qualità, talento: i ragazzini come me erano costretti sempre a giocare da ala, perché si ironizzava sul fatto che fosse il posto più vicino agli spogliatoio. Lui però mi diede fiducia: io mi sentivo centrocampista e Pesaola mi fece giocare centrocampista».
Si ricorda ancora il suo primo contratto?
«Indimenticabile. Roberto Fiore mi convocò in sede e io chiesi un milione all’anno. Mi cacciò, mi disse: ”ma che hai capito?”. Poi fece marcia indietro e mi accontentò. Con lui ho sempre avuto un grande affetto».
Non ha mai vinto uno scudetto.
«Una ferita che resta ancora aperta. Quel giorno a Torino, contro i miei amici Zoff e Altafini, ci andammo molto vicini».
Però si deve a lei l’ingaggio di Maradona?
«Lo volevano tutti, ma proprio tutti. Poi anni dopo dicevano che tutto il mondo sapeva che il Barcellona lo aveva dato via per i suoi problemi con la droga. Non è vero niente: c’era la fila per lui e io fui il più abile di tutti».
L’acquisto più importante della sua vita?
«Per me fu quello di Krol: un campione incredibile. In campo e fuori. Fatalità, la mia ultima gara con la maglia dell’Italia fu proprio contro la sua Olanda a Rotterdam»
Ecco, Juliano e la Nazionale.
«Io non sono bravo con le statistiche, ma trovatemi uno che a quell’epoca di grandissimi talenti ha preso parte a tre mondiali e ha vinto un Europeo».
In campo solo una manciata di minuti nella finalissima con il Brasile?
«Nel ’66 Fabbri mi preferì Bulgarelli, nel ’70 Valcareggi scelse De Sisti perché io non mi adattai all’altura messicana. Poi nel ’74 sempre Valcareggi mi preferì Capello e lì sbagliò: perché io ero molto più forte di Fabio anche se a parole, lo ammetto, è sempre stato più bravo lui. E lo dimostra ancora adesso».
Il leader del calcio meridionale faticava a giocare con l’Italia?
«Io ero, come al solito, penalizzato dal giocare nel Napoli: allora il club di appartenenza contava eccome. Prendete Zoff, che era il mio compagno di stanza: Dino aveva esordito in Nazionale come portiere del Napoli: ma, in quanto portiere del Napoli, aveva poi perduto la maglia e il titolare era Albertosi; salvo ritrovarla definitivamente come portiere della Juventus».
Una volta si è pure ammutinato?
«Sì, prima della partenza per la Germania sparai a zero contro Valcareggi che, poverino, in fondo non se lo meritava proprio. Dissi: che qui deve giocarci chi lo merita e non chi è appoggiato dal proprio club».
Una curiosità: ci svela il segreto del suo compleanno?
«Sono nato il 26 dicembre del ’42. Ai tempi della guerra si preferiva dichiarare in ritardo: essendo classe ’43, mia mamma pensava che sarei partito più tardi per il militare, quando magari c’era la pace».
Fonte: Il Mattino
La Redazione
M.V.
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