Secondo piano dell’hotel dove ieri la Disciplinare ha messo sotto processo il Napoli. La stanza ha il letto sfatto, sul comodino un pacchetto di biscotti aperto e mangiato a metà, accanto una bottiglia d’acqua. Matteo Gianello parla, ha quasi gli occhi lucidi, a volte. Forse ripensando a quello che è stato, a quella cavalcata durata otto anni, iniziata a Paestum senza palloni in serie C e arrivata col profumo della Champions League. Fino a quella mattina, alla telefonata dell’allora direttore generale del Napoli, Fassone. L’inizio di un’altra storia, di diciotto mesi che per lui, Gianello Matteo da Bovolone, in provincia di Verona, sono stati e sono un inferno. Parla, Gianello, al suo fianco come un angelo custode, il suo legale, l’avvocato Eduardo Chiacchio, che in serata ha chiesto la derubricazione da illecito sportivo a violazione dei principi di lealtà e correttezza sportivi, così da scongiurare eventuali ricadute da patteggiamento. Parla e sembra voler chiedere scusa a quella città, a quella società, a quei tifosi per i quali nutre ancora rispetto e amore. Ha sbagliato, lo sa lui per primo, ma mai avrebbe voluto gettare discredito su quello che considera «la mia vita».
Gianello, è il giorno del giudizio. Si sente?
«Tradito. Tradito da una persona che consideravo un amico. Tradito da una persona che ho conosciuto e che mi è stato presentato all’interno del club. Gli avevo dato la mia fiducia, anche lui mi aveva fatto delle confidenze. Ma non ha tradito solo me, ha tradito anche Cannavaro e Grava, con i quali andava a mangiare».
Cannavaro e Grava li ha tirati in ballo lei, però…
«Ma non lo avrei fatto, quella fu quasi una battuta, la mia, mica una proposta vera e propria. Fra l’altro, non ero neanche convocato, cosa avrei potuto fare, anche volendo? Mi resi conto che stavo facendo una stupidaggine nel momento stesso in cui mi sono trovato davanti loro due, due amici».
Torniamo al tradimento: si riferisce al poliziotto che la seguiva in incognito?
«Secondo me, soffriva, avrebbe voluto essere “protagonista”, gli altri lo trattavano con superficialità, io gli davo magliette e biglietti, ma non è mai venuto a casa mia, figuriamoci poi se lo invitavo ai festini, che non ho mai fatto».
Ci sono anche le intercettazioni, però.
«Ma io non ho mai fatto quelle cose, sapevo che Giusti era uno scommettitore, ma quando gli dissi di sì al telefono lo feci più per togliermelo dai piedi, visto che mi chiamava dieci volte al giorno. Ho commesso un’ingenuità dietro l’altra, come quella di adeguarmi al loro linguaggio. Mi sono fatto prendere la mano».
Cosa si rimprovera adesso?
«Mi rimprovero tutto, soprattutto di aver gettato discredito sul Napoli, sulla società, su due miei compagni, che erano amici, e dico erano perché credo che loro non se ne facciano più nulla delle mie parole. Club e spogliatoio, per come li ho vissuti io, sono eticamente molto corretti. Ho sposato un progetto, nato da un fallimento, dalla serie C, al ritiro di Paestum non c’erano neanche i palloni… (gli occhi diventano lucidi). In B mi chiamavano il portafortuna del 3-1, quando giocavo io vincevamo sempre con quel risultato».
Mazzarri l’ha definita, sintetizzando, lavativo e svogliato.
«Cannavaro e Grava hanno sempre detto che ero disponibile, sempre, anche a fine allenamento, per tiri supplementari, rigori. In due anni ha parlato con me una sola volta, quando è arrivato. Una volta, alla fine di un allenamento, mi ha chiamato Guardalben…. Con lui esistono solo i titolarissimi».
Ha mai cercato Cannavaro e Grava.
«Onestamente no. Ormai, credo, sia andata così…. Ma avrei preferito pagare solo io piuttosto che loro: con Grava eravamo insieme dalla serie C, con Paolo dall’anno della B, ci capivamo al volo».
De Sanctis ha detto che con lui non aveva un rapporto genuino…
«E mi sono dispiaciuto quando l’ho saputo. Eravamo come… fidanzati, allenamenti sempre insieme, giornate intere. Io, fra l’altro, l’ho pure scagionato, poteva scegliere un silenzio di qualità».
Ha ricevuto minacce?
«Era nato un profilo Facebook con minacce varie, l’ho denunciato alla Polizia postale».
L’ha mai chiamata qualche dirigente? Anche se non ufficialmente, stavate trattando il prolungamento del contratto….
«Nessuno lo ha fatto, neanche il presidente, neanche Bigon. Ho commesso un’ingenuità, per la quale non finirò mai di chiedere scusa, ma non sono un “bandito”. Ho pagato, sto pagando e pagherò. E mi dispiace: io, per questa maglia, ho preso insulti perché sono di Verona. E sapete perché? Perché Napoli era la mia vita».
Fonte: Corriere dello Sport
La Redazione
A.S.
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