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Giampaolo: “La grande occasione deve arrivare presto, non allenerò fino a sessant’anni”

"Fui contentissimo d'andare ad Empoli dopo Sarri"

Marco Giampaolo, intervistato da Paolo Condò nella prima puntata della terza stagione del programma Mister Condò – gli allenatori si raccontano, ha ripercorso la sua particolare carriera ricca di passione e coerenza negli ideali.  L’allenatore blucerchiato è stato intervistato dalle telecamere di Sky Sport nello scenario dell’Acquario di Genova dinnanzi alla vasca degli squali.

“Volevo forti motivazioni, sono ripartito dall’ultima squadra militante nella categoria dei professionisti soprattutto per una sfida con me stesso, mi sono detto devo ripartire da lì, vediamo se sono capace a tornare, a ritornare nel calcio più importante che poteva darmi anche una soddisfazione personale profonda, è stata una scommessa, poi ho avuto la fortuna di trovare persone che ti danno un’opportunità.

Sono nato a Bellinzona ma sostanzialmente sono abruzzese di Giulianova, quindi ho vissuto tutta la mia infanzia in strada ed in casa a Giulianova. Le radici sono forti e sono quelle, vado in barca con i vecchi amici, è un momento di svago, riesco a staccare, ritrovo me stesso, ritrovo quello che sono in realtà. Poi, il nostro lavoro, ti porta a conoscere tantissime persone. Non sono diffidente, ritengo di dare sempre molta fiducia agli altri, però ritrovo le mie origini con gli amici di sempre, quelli con cui sono cresciuto in strada, con cui ho giocato a pallone in strada.

La strada insegnava, la strada era esperienza di vita, si poteva ancora giocare in strada, ricordo che mettevamo le pietre per fare le porte e giocare mentre le auto passavano, si andava a suonare i campanelli o a scoppiare i petardi dentro qualche negozio, poi si fuggiva. Dentro tutte queste cose c’era furbizia, si facevano delle corse e c’erano elementi di coordinazione perché magari dovevi saltare un cancello. La strada che insegna, oggi nel nostro modo di vivere non c’è più.

In un progetto ideale nella mia testa c’è quello di abolire le scuole calcio e riprodurre la strada come scuola calcio, tutti quegli elementi che ti portano a saltare il cancello, a salire su un albero.  Adesso hanno tutti le magli uguali, i kit acquistati, prima invece il kit dovevi meritartelo, era un punto di arrivo. Mi ricordo un episodio di qualche anno fa, in vacanza a Zanzibar, erano in trenta, quindici contro quindici, chi aveva la maglia bianca, chi gialla, chi a dorso nudo eppure si riconoscevano, straordinario. Adesso invece il compagno di squadra lo riconosci perché ha il tuo stesso colore di maglia, una volta invece era più conoscitivo, sviluppavi sensibilità diverse, ecco perché la strada, a mio avviso, ha creato un livello di qualità, nei calciatori degli anni passati, superiore.

La mia è stata una carriera da calciatore in Lega Pro, fino a trent’anni, poi ho dovuto smettere per un infortunio, illude, illude perché arrivi a quell’età che non hai né arte né parte, non riesci a sostenerti per quello che hai fatto da calciatore quindi devi reinventarti, ma non sei preparato per fare questo. Ho avuto la fortuna di smettere e cominciare a lavorare guardando le cose dall’altra parte, ho avuto la possibilità di iniziare nelPescara calcio come allenatore, da lì è partita la mia carriera da allenatore. Se mi avessero detto di smettere di giocare all’età di ventitré, ventiquattro o venticinque anni lo avrei fatto per cominciare ad allenare, quindi io mi sono sempre preparato per fare questo. E’ una cosa che mi è sempre piaciuta, poi c’è bisogno dell’opportunità, di qualcuno che ti dia fiducia.

Federico, mio fratello, aveva talento, un talento straordinario, credo che non abbia avuto la stessa determinazione abbinata al talento in quell’occasione, quando andò a giocare alla Juventus. In famiglia è stata vissuta con un po’ di dispiacere per quel talento, perché io stesso pensavo che lui potesse e dovesse fare di più.

Adriano Buffoni a Giulianova mi diede l’opportunità e mi disse di andare a lavorare con lui, disse io ci metto la faccia ma tu organizza il lavoro come meglio credi, disputavamo una stagione bellissima, lui espresse in me grandissima fiducia, io ero giovanissimo. A tre giornate dalla fine si dimise, il club mi disse: allora la squadra la prendi tu. L’allenavo già sul campo ma non ero l’allenatore di quella squadra. Avevo ottenuto la fiducia dal mister e rifiutai, rifiutai perché era giusto che rifiutassi. Ero a Giulianova, a casa mia, ma non feci fatica a rifiutare di allenare una squadra che avevo allenato perché la fiducia me l’aveva data Adriano.

Treviso feci un buon anno con Ammazzalorso, anche lui mi diede molta fiducia e vincemmo il campionato di Serie C e andammo in B, l’anno dopo rimasi a Treviso con Buffoni e ci salvammo. Poi mi chiamò l’Ascoli per fare il primo allenatore, collaborai con Massimo Silva, non avevo il patentino, anche quello fu un biennio straordinario, venimmo ripescati in Serie A. Io non avevo il patentino, lavoravo nell’ombra, nell’anonimato, mi piaceva perché era quello il mio lavoro, non dovevo gestire tutte le altre cose che avevo da gestire le tante cose che girano attorno ad una squadra di calcio.

Dopo la notizia del ripescaggio in Serie A ebbi un incontro con il presidente, facevamo fatica a fare la squadra, io gli dissi: non voglio fare passerella in Serie A, dobbiamo fare una squadra competitiva. Mi ricordo che un giorno addirittura me ne andai, poi ci diedero una deroga di una settimana e riuscimmo a completare la squadra in una settimana. Anche qui, le alchimie…

La prima in Serie A contro il Milan aveva piovuto fino a cinque minuti prima, pensavamo che venisse rinviata, invece per noi quel risultato diede la convinzione che forse potevamo giocarcela, per il nostro obbiettivo. Ci furono molte polemiche per la decisione di giocare su quel terreno di gioco. Dopo la partita io facevo la doccia ed andavo a casa, il post partita non era più affare mio.

In quella partita segnò Quagliarella, lui non ha perso l’entusiasmo, la Juventus credo gli abbia insegnato tante cose, cosa significa essere professionisti, cosa fare per curare al meglio il proprio fisico, oggi alla sua età si pone davanti al suo mestiere con una professionalità straordinaria e credo che questo lo abbia imparato alla Juventus.

Io volevo fare il mio lavoro, non avevo un curriculum importante, ogni volta che presentavo domanda a Coverciano, non c’era verso. E’ successo per quattro o cinque anni consecutivi, come se ci fosse qualcuno che mi impediva di allenare e quindi erano sogni spezzati già prima di incominciare. C’era una barriera di quaranta iscritti ed io puntualmente stavo fuori dai quaranta perché bastava che smettesse di giocare un calciatore che avesse fatto una carriera fra Serie A e Serie B. Non uscivo da quella situazione, volevo soltanto lavorare, ho avuto la fortuna di trovare professionisti che mi hanno dato quello spazio, che mi hanno dato la possibilità di fare quel lavoro sul campo. Successivamente alla squalifica mi hanno dato la possibilità di accedere al corso e quindi di mettermi in regola. Ma avrei fatto a meno di quella pubblicità negativa. Ci rimasi male, perché intendevo il mestiere dell’allenatore come una passione, come uno che va al campo ed allena.

Cellino a Cagliari? Ero molto suscettibile, ero incline al confronto, ero infastidito dal confronto. Non c’erano le condizioni per il mio modo di essere. La seconda volta rifiutai di tornare anche perché i rapporti oramai erano segnati e nella convivenza forzata ci sto male. Allenerò fino a quando avrò passione, l’aspetto economico non mi fa vivere bene se non sto bene con me stesso. A Cagliari l’aspetto economico era caduto in secondo piano. Paradossalmente è stata una decisione in linea con quella presa quando allenavo il Giulianova. Ci sono tanti elementi di continuità che poi, tante volte, si sono rivelati opportuni, altre, non opportuni, ma ho dovuto pagare le conseguenze, ma non mi sono mai discostato da quella sottile linea tra orgoglio e dignità.

Orgoglio e dignità significano fare il proprio lavoro senza essere influenzato da elementi che non centrano nulla con il lavoro stesso. Significa poter svolgere la propria professione essendo responsabile e padrone delle decisioni che assumi. Cellino fu abile, ha un intelligenza sopraffina, fu abile perché sgombrò il campo da qualsiasi tipo di alibi che potesse essere il mio ritorno, giocò bene le sue carte.

A Siena dissi, parfrasando De Gregori:  il ragazzo si farà anche se ha le spalle strette. Si farà perché c’era del materiale per poter fare in modo che il ragazzo diventasse un giocatore serio. Del Grosso è stato uno dei calciatori che nei primi anni della mia carriera ho sempre portato con me, un ragazzo che mi permetteva di saltare degli step di lavoro perché conosceva il metodo. Ho sempre cercato di portare nelle mie squadre dei calciatori che conoscessero già il metodo, il tempo è il mio primo alleato ma anche il primo nemico.

Quando ero a Siena, una sera ci trovammo a cena a casa di Blanc, venni fuori da quell’incontro e da quella chiacchierata, mi misi in macchina, Alessio e Castagnini mi telefonarono, mi dissero: Marco al 99% sarai tu il nuovo allenatore della Juventus, bisogna soltanto che il consiglio approvi. Era più un tecnicismo, la responsabilità è sempre dei dirigenti. Viaggiai quella notte e tornai a casa a Giulianova assieme a mio fratello, perché era un lungo viaggio Torino-Giulianova. Dissi all’epoca che era impossibile che un altro Giampaolo, in un paese di 18.000 abitanti potesse andare alla Juventus. Al mattino dopo Castagnini mi telefonò e mi disse che alla Juventus c’erano cose più in alto di loro e che era stata fatta un’altra scelta, ma li si è chiuso, non ci sono più tornato sopra e non ho mai chiesto a Renzo quali fossero i motivi. Non mi sono mai guardato indietro, delusione che è durata il giusto, un episodio che racconto qui la prima volta, non ho mai raccontato della cena a casa di Blanc. Mi guardo indietro come se fosse una gran consolazione. Non mi interessa, è andata così, le considero opportunità che non sono andate a buon fine.

Avevo preso un’altra decisione, avevo capito che a Siena non bisognava rimanere, avevo pensato di andare via, lo avevo anche comunicato al club, andrai a trovare il presidente a Roma, non riuscii a contattarlo perché già si immaginava che avrei voluto lasciare. Rimasi,  ma non perché non avessi motivazioni, non avevo sbagliato a priori quel tipo di scelta, rimasi lì e dopo otto o nove giornate venni esonerato. Non c’erano i presupposti affinché io partissi da lì. Andò male, si creò un rapporto di conflitto con l’ambiente e non mi perdonarono nemmeno la prima sconfitta.

Catania venni esonerato con venti partite e ventidue punti. Il rapporto cominciò male, poi le cose si appianarono, qualche risultato la squadra lo fece ma non entrammo mai in grande sintonia. Allenare dodici argentini ed altrettanti italiani no era semplice, non era una squadra molto legata, lo vedevi quando si sedevano a tavola, c’erano sempre due sedie vuote al centro del tavolo, argentini da una parte ed italiani dall’altra. Comunque gli argentini sono sempre grandi lavoratori, di grande temperamento. C’era questa spaccatura ma in campo la squadra giocava queste partite senza guardare al colore della bandiera. Il Papu Gomez arrivò quell’anno, ricordo che lo scouting aveva individuato un altro calciatore in quel ruolo ed era Sosa, quello che l’anno scorso era al Milan, dicevano che il Papu aveva pochi goal in quel ruolo però a me sorprese da subito. Qualche anno dopo mi chiamò Colantuono che all’epoca allenava l’Atalanta e mi chiese di Gomez, gli dissi che era un giocatore fortissimo, adesso lo sta dimostrando.

Non ho mai saltato step, quando dico che il mio orizzonte temporale è di quindici o venti giorni ho bisogno di tempo per creare uno step sopra l’altro per cercare di far metabolizzare un certo modo di fare calcio alla mia squadra e, nel frattempo, devo aver la fortuna di far risultato. Sono subentrato una sola volta in carriera, non mi riconosco in quel tipo di funzione.

Cesena ero reduce da una bella full immersion in Spagna, a Barcellona, ero rimasto folgorato da quel modo di allenare. Guardiola era allenatore della prima squadra, Luis Enrique del Barcellona B. Trascorrevo la giornata da mattino a sera a seguire gli allenamenti del Barca e del Barcellona B, dei bambini e delle giovanili, sono rimasto affascinato da quel modo di far calcio.

A Cesena Candreva lo consigliai io, giocava a Parma ma con poca continuità, avevo l’idea di farlo giocare mezzala, avevo qualche buon giocatore ma la squadra probabilmente non aveva le qualità tecniche per esprimere quel tipo di calcio ed io sono andato dritto per quella strada.

Brescia, mediaticamente, è stata ingigantita la cosa. C’erano altri problemi, non è stato quello degli ultras l’episodio scatenante, non c’erano le condizioni per portare avanti un lavoro che pensavamo si dovesse fare, invece c’era l’obbligo di tornare in Serie A. La squadra non era competitiva, c’era un grosso difetto di comunicazione e mi resi conto che non c’erano le condizioni per portare avanti quello che ci eravamo detti. Poi è stato tutto strumentalizzato. In realtà io convocai il figlio del presidente Corioni al quale dissi: io vado via. Loro erano al corrente della mia decisione. Invece venne sottaciuta perché pensavano che io potessi ritornare sui miei passi e questo creò un grosso equivoco. In realtà io ero a Brescia, anche questo un difetto di comunicazione grave e ne sono uscito malissimo da quell’esperienza che probabilmente stava segnando l’oblio, la fine della mia carriera.

Mi davano per finito dopo quattordici partite in panchina in due anni. Io ho covato sempre rabbia, anche rancore, risentimento. Ripetevo a me stesso: devi decidere tu quando smettere, non lo devono decidere gli altri.

Andai a Cremona ad ottobre o novembre, non conoscevo la squadra, erano quartultimi in classifica. L’unica occasione in cui sono subentrato. Ero fortemente motivato, però non era la condizione ideale per ripartire, il rischio era altissimo. Avevo Di Francesco, il figlio di Eusebio, non conoscevo i calciatori ma ho avuto una disponibilità altissima da questi ragazzi. Sono stato fortunato perché in Lega Pro tante volte trovi ragazzi a fine carriera che hanno i loro vizi e che hanno maturato le loro certezze, questa era una squadra giovanissima che si è impegnata  ed abbiamo fatto un buon calcio, eravamo in quindici, eravamo contati, una delle esperienze, aldilà della categoria, una delle esperienze più belle a livello umano e professionale. Era l’ultima spiaggia, senza ritorno. A gennaio mi chiamò Sarri e mi disse che avevano un calciatore da dare in prestito, disse: io ho detto di darlo a te perché tu me lo puoi migliorare e poi sappi che se vado via da Empoli, faccio il tuo nome qui. Se non fossi andato a Cremona  probabilmente sarei a casa e non allenerei più. Invece quella scelta un po’ imprudente e temeraria, coraggiosa ma sempre animata dalla grande passione, mi ha permesso lo step successivo.

Maurizio è sempre stato un grandissimo studioso di calcio, ha una mente matematica, geometrica, deve sempre razionalizzare il tutto, non è un allenatore che improvvisa. Quando venni chiamato all’Empoli qualche amico mi diceva che dopo Sarri era difficile, io invece ero contentissimo perché sapevo di trovare un lavoro importante alle spalle. Una squadra con grandi conoscenze, anche se cambiammo quattro o cinque giocatori, però la squadra respirava un certo tipo di calcio. Era un rischio per tanti, anche per me, avevo visto le partite dell’Empoli, la stagione successiva ho fatto meglio di Sarri solo perché avevo dei giocatori più bravi. Quella squadra aveva un livello di conoscenze straordinarie oltre a delle qualità tecniche individuali. Una piccola grande squadra costruita per quella finalità, per quel tipo di calcio, lo scouting orientato esclusivamente alle capacità tecniche, alla capacità di palleggio, quindi un club che sapeva cosa bisognava andare a cercare, qualità e quali caratteristiche.

Ci siamo incontrati con il Dottor Galliani, ci sentivamo spesso al telefono, ci siamo incontrati anche a Milano. Penso fossi il suo allenatore candidato, poi come succede spesso si prendono altre decisioni. Anche questa la considero un’opportunità. Devo dire che in concomitanza al Milan, anzi, prima della telefonata di Galliani mi aveva già chiamato Osti alla Samp. Però c’era Montella, mi disse che se Montella fosse andato via avrebbero preso me, molto chiaro e molto limpido. Ma se non fosse andato via Montella non sarei andato alla Sampdoria ma probabilmente nemmeno al Milan.

Con Ferrero non parliamo di calcio, Ferrero capisce di uomini, riconosce gli uomini, le persone, penso che questo sia dovuto alla vita che ha vissuto, nella strada pure lui, a differenza di tanti altri che si addentrano in certi discorsi. A lui non importa nulla, lui riconosce gli uomini, la passione, il lavoro, e non sbaglia, il Ferrero privato è diverso rispetto al Ferrero pubblico.

Il tifoso alla fine si fa prendere dall’esito della partita, penso che però in fondo i tifosi sappiano riconoscere il livello di credibilità degli uomini, dell’allenatore in questo caso, ma anche dei calciatori. A Genova ho avuto un buon rapporto da subito, l’anno scorso vincemmo le prime due e poi ne perdemmo quattro consecutivamente alla soglia del derby, probabilmente, se l’avessimo perso, mi avrebbero mandato via. In quella partita ho ricevuto l’attestato di stima in gradinata, straordinario: mister siamo con te. Ed io non avevo dato nulla, non avevo fatto ancora niente.

Schick è stato uno fra i giocatori con più talento che ho allenato. Il primo Schick  potrei definirlo ancora un bambino, non ancora morfologicamente strutturato, non ancora conformato, nel limbo fra il settore giovanile e l’ingresso in prima squadra. Il primo Schickalla Samp era un calciatore che doveva ancora farsi anche fisicamente e strutturalmente. E’ cresciuto tanto in sei mesi, fisicamente, poi aveva la sensibilità e la qualità di fare cose diverse, non è mai banale. Allegri mi chiamò per chiedermi di lui in tempi non sospetti ed io gli dissi: Max, Schick non è un calciatore banale, è un giocatore che fa cose importanti nei club dove gli viene richiesto di fare cose importanti, non fa mai la giocata scontata, fa sempre qualcosa in più.

A lui ho augurato il meglio, sono contento, nessuno deve stare per forza in un posto, le ambizioni ed i sogni vanno assecondati e seguiti. Sono contento quando un calciatore è felice di fare qualcosa di diverso, raccontare una storia diversa. Era impossibile non cogliere la qualità di questo ragazzo, non aveva giocato con grande continuità, però, tutte le volte che l’ho chiamato in causa da subentrante, ha fatto sempre la differenza. Anche questo è un valore aggiunto dei ragazzi che arrivano dalla strada e anche dall’estero, dove non hanno sovrastrutture particolari, questi giocano a calcio e se non li fai giocare alla domenica non mettono il muso ma ti sfidano: la prossima volta subentro e ti metto in difficoltà. Questo mi piace molto.

Galeone è stato un precursore calcisticamente parlando, l’orientamento calcistico di Galeone è stato sempre attraverso calciatori di qualità, faceva delle esercitazioni sul possesso palla ed incitava i possessori, non coloro che dovevano rubare la palla. La stessa esercitazione la puoi produrre incitando coloro che devono riconquistare la palla. Quindi aveva una visione con lo stesso esercizio ma in un’ottica diversa sul calcio giocato, innovativa. Per me è stata un’esperienza straordinaria lavorare con lui.

Poco tempo fa ho detto che nei miei sogni c’è quello di allenare l’Inter perché è stata la squadra per cui ho tifato da bambino e per la quale ho litigato in strada perché erano tutti juventini. E poi, a casa mia, mettere su una scuola calcio, ma non ho ancora molto tempo, non sono dell’idea di allenare fino a sessantanni, smetterò prima,  poi mi prendo il quadro e lascio la cornice agli altri, dunque l’occasione deve arrivare in fretta.”

Fonte: Sampdorianews.net

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