Nell’infinito che si protrae dinnanzi, c’è un’esistenza che si può scorgere; e in quelle insenature che catturano, ci sono specchi d’acqua in cui riveder se stessi: finché la barca va, è inevitabile lasciarsi cullare dalle onde e i ricordi che riemergono, sono carezze lievi come una brezza. Il passato che ritorna, tra i flutti della Costiera Sorrentina, è Napoli e la Lazio, è un universo d’un azzurro cangiante che trascina Edy Reja nei fondali delle emozioni perdute e però indimenticabili, condivise nella pesca dei dettagli (persino quelli apparentemente marginali) con sua moglie Livia, l’altra metà (silenziosa e paziente e però opportunamente illuminante) d’un cielo stellato e dunque emozionante. Il mondo è una palla, vero, e dentro, infilandosi con la sobrietà di sempre, viaggiando quasi sotto la linea di galleggiamento per non lasciarsi scorgere, attraversandolo con la signorilità d’un lord che preferisce il profilo basso e procede a testa alta, si scovano «sacche» d’episodi densi d’umanità «paterna» magari nascosti tra le pagine d’un libro regalato a Zarate o umanissime emozioni inghiottite dalla calette d’un futuro nel quale è invece impossibile (per il momento) avventurarsi. L’Italia vista da quel «vecchio» gentleman che ora se ne sta felicemente per mare è un meraviglioso Paese di poeti, santi, navigatori e allenatori, calciatori e presidenti, da scrutare senza un pizzico di veleno e però pure con assoluta onestà intellettuale; o magari una banchina sulla quale sostare per raccontar con rispetto e pure con sincerità ciò che si scorge dalla tolda, aspettando di trovare nuove rotte e sapendo che non serviranno bussole per orientarsi ma quel filo spesso di saggezza che è servito per viaggiare spedito con il vento in poppa per cinquant’anni – dalla Lazio al Napoli, dal Cagliari al Cosenza, dal Vicenza al Bologna e via, via, da Gorizia in poi con lo stile di Edy Reja.
Reja, la più insolita delle estati.
«Era dal 2004 che non mi fermavo. Restai a spasso per un po’ – dopo la promozione in A con il Cagliari – e a gennaio del 2005 andai al Napoli in C».
Ultime due squadre italiane, Napoli e Lazio: le dice niente la classifica?
Personaggi e interpreti conosciuti da vicino.
«Il Napoli l’ho visto crescere e quando arrivò Hamsik, che era ancora un ragazzino, si capì subito ch’eravamo di fronte ad un predestinato».
La sua definizione all’epoca sembrò forzata: un po’ Gerrard e un po’ Lampard…
«E’ stato il capocannoniere del mio Napoli, prima che arrivasse Cavani. Intuitivo come pochi, lui sa già dove andrà a cadere la palla. Aggredisce gli spazi, ha testa, ha maturità, è rapido di pensiero e ciò rappresenta un vantaggio indiscutibile».
Dalla Roma biancazzurra s’è appena staccato.
«Restando legato agli uomini che mi hanno rappresentato la loro stima a più riprese. Ho avuto ragazzi eccezionali, con i quali abbiamo compiuto un percorso straordinario. Dovrei citarli tutti, uno ad uno. Ho ricevuto telefonate affettuose che mi hanno gratificato».
Scelga allora un calciatore-simbolo.
«Se proprio mi costringe, punto su Klose, che segna con continuità impressionante ed ha cominciato alla sua maniera. Ma potrei citare Hernanes o Brocchi o chiunque altro: il rapporto umano è stato fortissimo».
I suoi giorni alla Lazio però furono duri.
«Acqua passata, perché il distacco è stato normalissimo e con Lotito ho avuto modo anche di sentirmi, così come con Tare. Il mio ciclo era finito e dentro di me non avevo più gli stimoli che servivano per andare avanti».
Ci fosse stata la Champions…
«Mi è mancato quel traguardo, sfiorato per due volte. Ma siamo arrivati alla sfida decisiva di Udine con gli uomini contati. A gennaio non eravamo riusciti a chiudere alcune operazioni, ci trovammo con l’organico carente».
E alla fine di quel mercato, usando un eufemismo, furono scintille.
«Dissi ciò che pensavo, diciamo furono confronti serrati. Inutile tornarci su, resta il rispetto tra professionisti che hanno condiviso un progetto».
Petkovic è partito con il piede sull’acceleratore.
«E’ stato bravo ed intelligente, si è presentato in punta di piedi. E’ persona di assoluta sensibilità. E’ arrivato ed ha trovato una Lazio che aveva dei suoi princìpi tattici, ci ha inserito ovviamente qualcosa di suo. Complimenti davvero».
Torniamo sugli episodi: pure lei perse la Champions per un (mezzo) cucchiaio.
«Il rigore di Zarate a Udine, centrale. Forse è stato quello il momento ci siamo andati più vicini. Quando ho visto Maicosuel scegliere quella soluzione, ho ripensato a me. Comprendo Guidolin, quel momento di vuoto l’ho vissuto anche io».
Zarate: tormento ed estasi.
«Qualità tecniche enormi. Solo lui può decidere se diventare calciatore completo. Svelo una curiosità: due anni fa gli regalai un libro, «Il Gabbiano Jonathan Livingston». Spero l’abbia letto e ne abbia colto la morale. Per perfezionarsi servono sacrificio e applicazione. E’ padrone del proprio destino, perché ha le possibilità per imporsi».
Il Napoli l’ha fatto con saggezza…
«Bel mercato e però se ne parla poco. Ha acquistato ciò che serviva, pure stavolta: Behrami mi piace e Insigne quando giocavamo contro gli allievi, al giovedì, mandava in crisi i titolari, non lo beccavano mai. C’è l’idea di calcio originale, lì: c’è la mano di De Laurentiis, di Bigon, di Mazzarri. Un lavoro di equipe».
Diamo un po’ i numeri.
«Ora è venuta fuori la moda della difesa a tre, con la quale sono arrivato in serie A con il Napoli, con la quale sono arrivato poi subito all’Intertoto. A quel tempo, se non sbaglio, c’erano soltanto due tecnici che avevano scelto questa via: il sottoscritto e Mazzarri. E però mi davano del vecchio. Ora la fanno quasi tutti ma li chiamano innovatori».
A proposito di «vecchi», e lo scriviamo tra virgolette… Zeman.
«Zeman è un grande e il suo rientro lo conferma. A me piace il suo modo di essere e di proporre calcio e la Roma è una sfida affascinante, che va seguita. Ne sono incuriosito e mi sembra che l’avvio sia incoraggiante».
Ci sono stati vari avvicendamenti in panchina…
«Ma i giovani ogni tanto smarriscono la strada. Forse l’esperienza aiuta a capire come si fa per non andare a sbattere».
L’hanno cercata dall’estero e ha detto no a un paio di offerte: non ha voglia di tornare?
«Aspetto, come si dice in questi casi, che scocchi la scintilla, che arrivi la proposta giusta. L’inattività estiva ha avuto dei vantaggi: sono stato cinque anni a Napoli e non m’ero mai goduto le bellezze della Costiera Sorrentina. Sono stato a Sant’Agata, ho conosciuto la famiglia Iaccarino, eccellenza di un’Italia meravigliosa, gente che ha una umiltà dentro di cui abbeverarsi. Ho annusato i profumi d’una terra incantevole. Stare in panchina dà tanto e forse toglie la possibilità di osservare tutto».
Ha avuto modo di rivedere qualche immagine del recente passato?
«Se si riferisce alla mia corsa sotto la curva per abbracciare Klose dopo la sua prodezza al 93′ nel derby, dico di no. Ho vissuto varie emozioni: ieri, per strada, un papà ha chiamato il bimbo e gli ha detto, questo signore ha ricreato il Napoli. M’è venuta la pelle d’oca. Quando tornai al San Paolo, la prima volta da ex, rimasi stordito dall’accoglienza, applaudivano tutti. E poi quella vittoria in Lazio-Roma. Un minuto prima della rete, dissi in panchina: se segniamo inseguo il goleador. Ho avuto tanto dal calcio, ma se provate a mettervi nei miei panni, vi rendete conto che certi momenti restano per sempre».
La Juve parte in vantaggio?
«Perché ha vinto, ha l’abitudine a farlo ed ha allargato la rosa. Però andare in campo alla domenica e al mercoledì toglie energie, fisiche e mentali. E Napoli e Lazio sono pronte a insidiarle. E quella Roma è invitante».
Ma Reja un rimpianto ce l’avrà?
«E’ inutile negarlo: la musica della Champions, quell’atmosfera unica del Grande Calcio, rappresentano un desiderio forte. Ma attenti, io non sono vecchio….».
Fonte: Corriere dello Sport
La Redazione
A.S.
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