La Mostra di Venezia ha per Aurelio De Laurentiis un valore affettivo: da anni il Leone del futuro che si assegna all’opera prima porta il nome di suo padre, Luigi De Laurentiis, e al vincitore vanno anche i centomila dollari messi a disposizione dalla Filmauro, suddivisi tra il regista e il produttore. Un modo costruttivo per aiutare i giovani talenti. Quest’anno il riconoscimento è andato al film «White Shadow» di Noaz Deshe, un film sugli albini africani finanziato da Ginevra Elkann. Come dire che il presidente del Napoli ha premiato la sorella del proprietario della Juventus. Come la mettiamo, presidente? «Beh, sono contento. Ginevra mi parlava del suo amore per il cinema da anni, noi stavamo ancora in serie B e loro pure, se non ricordo male. Vedere che ha dato una continuità alla sua passione mi fa piacere. E lo ha fatto con intelligenza, dedizione, garbo, investendoci tempo e denaro, con un occhio alle cinematografie difficili. La nostra intesa nasce dall’amore per il cinema. In questo non possiamo essere contrapposti». Nel calcio, invece… «Il calcio è un altro discorso». E l’assorbe sempre di più. «Ora sono in partenza per Ginevra, vado alla riunione dell’Eca, l’associazione dei club europei presieduta da Rummenigge. Si parlerà del futuro del calcio. Già m’immagino le discussioni, le lotte intestine…». Il tema è impegnativo. «Guardi, all’origine delle associazioni di categoria, di tutti i settori, c’è un grossolano misunderstanding: sembrano nate per tutelare con intelligenza il lavoro degli associati, in realtà servono solo per dare immagine, potere politico e ufficialità alle dichiarazioni di chi li rappresenta. Da 45 anni lo vedo nell’Anica, l’organismo che riunisce i produttori, dove si fanno ancora discorsi preistorici, l’ho visto nel calcio per quanto riguarda la Lega. E ho potuto appurarlo anche nell’Eca: perché invece di lasciare spazio a quei pochi illuminati che hanno la capacità di vedere i problemi al cento per cento e di creare modelli di gestione per tutti, si ricerca il potere della rappresentatività, mantenendo in piedi un carrozzone. Come si dice: più siamo, più si fa ammuina». La sua ricetta, invece, qual è? «Se il calcio è un’industria, allora bisogna considerarlo come tale. In Italia almeno il sessanta per cento di noi lo pensa, in alcuni paesi europei no. E quindi nelle riunioni difficilmente si approda a cambiamenti capaci di stravolgere il passato in modo positivo. Si cerca di mantere lo status quo. Ci riuniamo per discutere del nulla. Il che mi diverte pure, voglio vedere fino a che punto arrivano». E lei dove vuole arrivare? «L’ho detto, bisognerebbe delegare ai pochi al di sopra di ogni sospetto che si comportano da industriali del calcio. Demandiamo al Bayern, al Borussia, al Napoli, alla Juventus, ad alcuni club che hanno abbracciato la filosofia del signor Platini del fair play finanziario, quella per cui devi avere i conti a posto per accedere a tornei che creano fatturato. Invece gli oligarchi russi e gli arabi si sono inventati modalità apparentemente corrette, in realtà scorrettissime, per finanziare a dismisura i propri club. Il Chelsea, il Manchester City e il Paris Saint Germain per loro sono dei giocattolini». Aspettando la riunione di Ginevra, ha fatto una puntata alla Mostra. «Non ci venivo da anni, ma mi piace l’idea del premio che porto avanti nel ricordo di mio padre, il faro della mia vita. E sono grato a mia moglie Jacqueline che a Los Angeles ha riempito la camera da letto di ricordi: sulle pareti ci sono le foto di papà da giovane, di me bambino, di noi due insieme… Quando mi sveglio le guardo e rivivo la tenerezza del nostro rapporto. Il lavoro ci lasciava poco tempo, ma ci volevamo bene». Il cinema è molto cambiato da quando lo faceva suo padre e il Leone d’oro quest’anno lo ha vinto un documentario. Lo considera anche lei un punto di svolta? «Ne parlavo quest’estate a Ischia con Leonardo Di Costanzo, il regista dell’”Intervallo”, bravissimo documentarista. Mi diceva che non ha senso considerarlo un genere a parte, che racconta storie con un linguaggio diverso, ma sempre cinema è. Sono d’accordo». Ha visto «Sacro GRA» di Gianfranco Rosi? «Ancora no, ma so che il regista ci ha investito tre anni di vita. La sua idea di umanizzare un posto disumano come il raccordo anulare di Roma, di sentirselo amico, di creare un ponte, è un elemento molto curioso e suggestivo. Spero crei un ponte anche con gli spettatori». Si è detto: scelta rivoluzionaria per il Leone, verdetto equilibrato della giuria guidata da Bernardo Bertolucci. Condivide? «Bertolucci è un genio che ci ha regalato film sempre diversi e sempre liberi. Ha vissuto con la stessa libertà le sue scelte e ha permesso alla giuria di esprimersi in totale indipendenza, senza pressioni». Il direttore della Mostra, Alberto Barbera, pensa che nel cinema italiano latiti la qualità. «Una contraddizione, nell’anno in cui l’Italia torna a vincere. Ma i problemi ci sono. Io, per esempio, ho finanziato ”Il terzo tempo”, un film sul rugby passato alla Mostra, perché avevo letto una bellissima sceneggiatura. E mi chiedo: se lo avessi fatto in Gran Bretagna o in Australia, dove il rugby la fa da padrone, avrei avuto tutte le difficoltà che incontro nel nostro Paese?». Risposta pleonastica. «La verità è che in Italia non si può più lavorare, Mediaset e Rai hanno bloccato il mercato. Io, che pure sono considerato il numero uno dei produttori indipendenti, negli ultimi anni non sono riuscito a vendere loro un solo film». Motivo? «Apparati pubblici da una parte, accordi di cartello dall’altra… Però vorrei anche far notare a Rai e a Mediaset che hanno ucciso l’appuntamento settimanale con il cinema in tv. Dicono che non fa più audience: non è vero. Perché non si mettono in competizione con la pay tv? Il cinema e il calcio dovrebbero fare un monumento a Sky. Se non fosse arrivato Murdoch, il cinema sarebbe finito con dieci anni di anticipo». È finito, secondo lei? «Lo sta facendo finire il governo, perché siamo il Paese più piratato, assieme alla Cina. Abbiamo il primato della scorrettezza. Gli autori sono disperati, dovrebbero fare la rivoluzione». Chiudiamo con il futuro della Mostra. Ognuno ha la sua ricetta. La sua qual è? «Io non cambio idea: la porterei a Venezia e sposterei le date. La farei dal 24 settembre al 2 ottobre, in coincidenza con la ripresa della stagione, mettendo a segno un grande assist per gli esercenti. I luoghi? Tra Piazza San Marco e l’Arsenale. So che il sindaco di Venezia non è d’accordo ed è giusto cercare di evitare le polemiche sul festival, ma il trasferimento sarebbe un bene per il cinema. E quando si ha lo splendore di Venezia come sfondo, si trovano anche i soldi. Dovrei andarci a parlare, con il sindaco. Assieme al direttore Barbera e al presidente della Biennale Baratta, s’intende».
Fonte: Il Mattino
La Redazione
A.F.
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