Antonio Careca, ex attaccante del Napoli, ha raccontato della sua esperienza azzurra al programma Storie di Bomber, in onda su Mediaset Premium. Ecco quanto dichiarato:
“Avevo voglia di vincere in Europa, c’era il calcio spagnolo o inglese ma in quel momento il campionato italiano era il numero uno. Quasi tutti i miei amici non credevano al fatto potessi lasciare il Brasile. Pensavano che tornassi dopo un mese.
Giocare con Maradona era un sogno, una volta ne parlai con lui. Napoli, dunque, era per me un sogno. All’inizio il cambiamento è stato difficile, i tifosi erano pazzi per i giocatori, non potevamo uscire per strada, per noi era un lavoro, andavamo a Soccavo per fare allenamento e poi tornavamo, non potevamo neppure accompagnare i figli a casa, avevo i tifosi sotto casa per l’autografo. Era una cosa pesante ma positiva. Parlando con Diego gli dissi che a Napoli ero a casa ma dovevo capire ancora un po’ di cose.
Iniziammo la stagione, andammo in ritiro a Madonna di Campiglio e Diego non c’era mai, pensai “cacchio…”. Per fortuna mi trovarono un interprete di musica, era uno duro ma il problema è che non capiva nulla di calcio. Vidi Bianchi parlare con lui per cinque minuti, gli stava spiegando cosa dirmi ma poi l’interprete sbagliò la traduzione (ride, ndr). Dopo la seconda settimana di ritiro Diego arrivò e mi salutò, saltò la parte atletica e fece subito quella tecnica. Aveva una tecnica e una visione di gioco completamente diversa a tutti noi, dovevo migliorare tantissimo perché quando giochi al fianco di un genio devi cercare di migliorarti sempre. Diego neppure mi guardava, già sapeva dove trovarmi.
Diego lavorava ogni giorno in palestra ma con la squadra lavorava massimo due volte a settimana, il suo contratto prevedeva solo di giocare la domenica, bastava per far bene. Dal gruppo era comunque visto benissimo. Noi calciatori sapevamo che, anche se non si allenava, la domenica lui decideva la partita ed infatti, amando il calcio, arrivava alla partita con la giusta voglia. La sua leadership era grandissima, tante volte giocò con infiltrazioni pur di giocare quando poteva benissimo stare a casa.
Uno scudetto vinto a Napoli vale come dieci altrove perché è molto più sofferto. Stoccarda? C’erano oltre trenta mila napoletani, non so come ci arrivarono. Io avevo 40 di febbre ma Ferlaino mi disse di giocare e basta, ma non potevo mandarlo a quel paese (ride, ndr). In Italia Vierchowod è stato il difensore più difficile da affrontare, era duro ma anche leale, non si stancava mai. E poi ricordo Bruno Pasquale, mamma mia come menava (ride, ndr)…”.
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