È lunga, bella e intensa l’intervista che il mensile francese So Foot ha dedicato a Benitez nell’ultimo numero. Un po’ se n’è parlato, la Gazzetta ne riportò qualche dichiarazione. Innanzitutto la titolazione: “Non mi accontento di segnare un gol più dell’avversario”, mentre in copertina il colloquio con Rafa è richiamato da «Benitez: un computer non segna gol». Benitez all’estero è evidentemente noto per l’uso delle tecnologie, per il suo ormai famoso data-base con cui segue i giocatori di quasi tutto il mondo e studia i dati delle partite e degli allenamenti. Non si parla molto di Napoli. Non la riportiamo integralmente, ma ne abbiamo tradotto quelli che abbiamo considerato i passaggi più significativi.
L’intervista comincia ricordando la breve carriera di calciatore di Benitez, interrotta da un infortunio al ginocchio. «Già all’università – spiega – ero allenatore-giocatore della squadra; già allora avevo una capacità d’analisi che mi permetteva di comprendere il calcio. Ma – aggiunge – quel che mi ha aiutato per il mio lavoro di allenatore sonoi stati i corsi di educazione fisica che ho tenuto nelle scuole. Ero molto attento a comprendere l’approccio mentale dei ragazzi in modo da adattare la mia metodologia al loro livello di apprendimento. Ho di fatto messo in pratica quel che avevo studiato all’università e che poi ho applicato nel mio lavoro di allenatore».
Benitez è considerato uno dei primi ad avere introdotto l’uso del computer nel calcio e ad averne insegnato l’utilizzo a Del Bosque. «Internet non esisteva ancora, eppure io avevo già un programma specifico sul mio Commodore 64. Riflettendo bene – prosegue Benitez – con gli anni l’esperienza accumulata sul campo resta più importante di tutti i dati memorizzati in un disco o in una chiavetta. Un insieme di dati non ti rende migliore, sei tu che rendi migliori questi informazioni, dipende dall’utilizzo che ne fai».
Ricorda, senza fare il nome della squadra, un dirigente di club che lo accusò di trascorrere troppe ore al pc: «Un computer non potrà mai fare gol», lo rimproverò.
A proposito di statistiche, dice: «L’unica statistica che fa la differenza nel calcio è il denaro. Più soldi hai più tu hai, di norma, giocatori forti. Un giocatore è forte quando coniuga parametri alti di velocità e intensità. È questa combinazione che consente ad alcuni giocatori di decidere le partite e far vincere la propria squadra. Giocatori così sono pochi e quindi costano».
Benitez parla dell’uso delle tecnologie per gli allenamenti: «Abbiamo programmi che analizzano le performance fisiche dei giocatori, altri dedicati agli aspetti tecnico-tattici, un software dedicato esclusivamente alle sedute di tiri in porta e poi consegniamo a ciascun calciatore una chiavetta Usb affinché migliorino gli aspetti di cui parliamo nel corso delle riunioni tecniche. Sono tutte informazioni che aiutano a prendere decisioni ma alla fine è l’aspetto umano che conta. Perché il calcio è innanzitutto un’attività dove l’intuizione e l’emozione giocano un ruolo importante».
Benitez offre una sua spiegazione alla reputazione che lo accompagna, ossia di essere un allenatore di coppe: «Sono gare a eliminazione diretta in cui c’è molta tensione e dunque i calciatori sono concentrati e motivati. È in questi momenti che i giocatori chiedono consigli e quindi è in queste occasioni che io posso fare la differenza. La ricetta per vincere un campionato, invece, è la regolarità ma dipende anche dalla rosa che hai a disposizione. E dalle motivazioni: il talento fa la differenza ma la motivazione fa il lavoro.
Gli chiedono quale sia il suo Dna calcistico. «Lo stile Benitez – risponde – è innanziatutto equilibrio. Se segno molti gol e ne incasso anche, non sono soddisfatto. Non mi accontento di segnare un gol in più dell’avversario così come non sono contento se ci difendiamo bene e segniamo sulla nostra unica azione dell’incontro. Voglio che la mia squadra faccia gol ma voglio anche che le mie squadre non si facciano sorprendere in difesa. Quel che al fondo mi interessa è il gioco. Bisogna essere capaci di fare pressing, di contro-attaccare e di avere il possesso palla. Sento spesso dire che le mie squadre hanno una vocazione difensiva. Non è vero, sono equilibrate, è diverso».
Del Napoli dice che «se miglioriamo la fase difensiva e manteniamo la nostra capacità di fare gol, ne guadagneremo in equilibrio. È l’equilibrio che ti fa vincere titoli. Lo scudetto? Tutti vogliono vincere lo scudetto ma in Italia se vinci una serie di partite sei il favorito, non appena commetti un passo falso ti eliminano dalla corsa al titolo».
Ed eccoci alla domanda che noi possiamo considerare clou: “Lei è molto metodico, come mai ha scelto di dirigere un club che ha l’immagine della propria città, ossia caotica e passionale?”. «Sono qui affinché Napoli rendalavitta difficile e si faccia rispettare dai club più forti d’Italia e noi stiamo sulla strada per raggiungere quest’obiettivo. Abbiamo cambiato il metodo di lavoro del Napoli: fisicamente, tatticamente, tecnicamente. Siamo riusciti a rendere i calciatori meno tesi, meno nervosi, in modo da metterli in grado di offrire il meglio di loro stessi. La squadra ha un profilo più internazionale, i giocatori sono più giovani e il loro valore di mercato è ben più alto rispetto a quando siamo arrivati. Abbiamo modificato anche le infrastrutture della società: gli uffici, le palestre, le sale riunioni, da pranzo, del riposo dove ora ci sono Playstation e televisione. Stiamo allestendo un’area specifica per l’allenamento dei portieri. Il giorno in cui andrà via da Napoli sarò soddisfatto di lasciare al mio successore un centro sportivo migliore rispetto a quello che ho trovato al mio arrivo».
Inevitabile la domanda su Maradona: quante volte le hanno parlato di lui? «Un mucchio di volte, ma è normale. Maradona è andato via da più di vent‘anni eppure è ovunque nella città e nella testa dei tifosi. A Napoli trasmettono la passione per Maradona di padre in figlio. Ne sono fieri e hanno ragione di esserlo. È giusto avere bei ricordi ma bisogna anche guardare al futuro. Oggi i beniamini dei giovani devono essere Higuain, Hamsik, Inler o Insigne perché sono loro che rappresentano il presente e il futuro del club».
L’impressione è che lei non si sappia vendere: «Il mio problema è che io e le mie squadre siamo troppo seri. Malgrado risorse economiche spesso meno importanti, i miei club hanno spesso fatto più che incutere timore agli avversari: hanno vinto. Col Liverpool in due stagioni abbiamo totalizzato 82 e 86 punti e abbiamo perso il titolo pur avendo segnato 119 gol una stagione. E c’era ancora chi sostiene che il Liverpool era una squadra difensiva».
A proposito suo periodo sabbatico prima di accettare il Chelsea, ha detto: «Avevo ricevuto offerte ma aspettavo la proposta di una squadra con cui avrei potuto lottare per dei titoli. Io voglio lavorare per vincere. Non alleno per trascorrere il tempoo disputare buone stagioni. Io alleno perché desidero vincere la Champions, l’Europa League, il campionato o la coppa».
Lei che tipo di allenatore è? «Mi considero uno stratega. Il fatto che ami la tattica non vuol dire che non presti attenzione ai calciatori. Senza di loro non esisterebbe tattica. All’inizio i giocatori non accettano il mio essere esigente ma alla lunga capiscono che è nel loro interesse. Guardate Callejon, Koulibaly. Lui poi ha enormi margini di miglioramento».
Fonte: Il Napolista
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