Cerca
Close this search box.

Lorenzo Insigne non è riuscito ad andare oltre se stesso

Lorenzo Insigne è un calciatore con qualità indiscutibili, immediatamente visibili, ben sopra la media dei comuni mortali. Allo stesso tempo, però, durante tutta la sua carriera l’attaccante napoletano ha mostrato limiti evidenti che ne hanno frenato la maturazione. Limiti che lo hanno confinato in una dimensione più piccola rispetto a quella cui potrebbe ambire uno con il suo talento.

Bisogna andare dentro la psicologia e l’emotività del giocatore, ma in realtà tutto parte dal campo e da quel che Insigne è in grado di fare con il pallone, quello che ha sempre fatto. E quel che non è mai riuscito a fare, perché non ha mai provato davvero ad andare oltre le sue certezze.

L’esordio in Champions League

C’è un momento in cui Napoli e il Napoli si sono convinti del potenziale di Lorenzo Insigne. È il settembre del 2013, Insigne è alla sua prima partita in Champions League. L’avversario è il Borussia Dortmund. Il gol su calcio di punizione contro il Borussia è il punto più alto della sua carriera fino a quel momento, è la dimostrazione che Insigne, a 22 anni, ha il potenziale per essere un giocatore importante a qualsiasi livello. È il primo anno della gestione Rafa Benítez, e Insigne ha alle spalle appena una stagione (eccellente, ma in Serie B) al Pescara e una di adattamento – una specie di anno zero – in Serie A, con Mazzarri. Dopo quel gol non c’è un solo tifoso napoletano che non sia convinto della qualità del piede destro del ragazzo di Frattamaggiore.

Insigne-to-Callejon

Il biennio di Benítez prima, e il triennio di Sarri poi, danno un nuovo volto al gioco del Napoli e dello stesso Insigne, che si impone come il vero creatore di gioco di una squadra con un’impalcatura tattica brillante e apprezzata in tutta Europa: con i suoi movimenti tra le linee, gli scambi di posizione con la mezzala vicina (più spesso Hamsik), e la capacità di mandare in porta i compagni da qualsiasi punto del campo, diventa l’uomo che muove i fili di uno dei migliori sistemi offensivi visti in Serie A negli ultimi anni. C’è un gesto tecnico che più di ogni altro è diventato testimonianza delle doti da rifinitore di Insigne: la traccia in diagonale a cercare il taglio di Callejon dall’altro lato del campo. Questo passaggio – un ensemble di visione di gioco, tocco, tempismo e intesa – è la signature move dell’attacco del Napoli. Con Benítez, con Sarri e con Ancelotti.

Il gol al Real Madrid

Il sistema disegnato da Sarri, in particolare, esalta le qualità tecniche del 24. In quegli anni Insigne dimostra di poter portare il suo gioco – che non ha grande varietà ma è estremamente efficace – ad altissimi livelli, ripetendo quei gesti settimana dopo settimana. Una vetta di rendimento sublimata dal gol al Real Madrid agli ottavi di Champions League nel 2017. È il nuovo punto più alto della sua carriera: un gol contro la squadra campione d’Europa. Un momento in cui sembra riuscirgli praticamente tutto. A questo punto Insigne è riconosciuto come uno dei giocatori italiani più forti, se non il più forte. Lo inseguono voci di mercato su un presunto o probabile trasferimento in squadre disposte a spendere decine di milioni per lui – per quel che valgono le notizie di calciomercato.

In Nazionale, un po’ alla volta

Nel triennio con Sarri, Insigne raggiunge uno status che solo in Nazionale non riesce ad affermare del tutto. Ma, con il senno di poi, si tratta della versione meno logica e razionale dell’Italia. La figura di Insigne è quella del giocatore che tutti ritengono in grado di cambiare il flusso negativo in cui è immersa la squadra – soprattutto De Rossi –, tutti tranne il ct Ventura. Solo con l’arrivo di Mancini Insigne diventa per davvero un elemento chiave degli Azzurri, in una squadra che mette la tecnica al centro di tutto. Con la nuova gestione, Insigne ritrova nell’Italia i suoi spazi e i suoi colpi. L’ultimo in ordine cronologico – alla Bosnia, in una partita di qualificazione ai prossimi Europei – è probabilmente il più bello. E fa pensare che forse una tecnica di calcio simile, che ha sempre avuto, sarebbe tornata utile anche in momenti più difficili.

Uguale a se stesso

Tutti questi momenti brillanti della carriera di Insigne, però, si somigliano troppo, fatti di gesti che sono da anni nel suo portfolio, e che lui è in grado di mandare a memoria. Sono rare le occasioni in cui il suo talento si manifesta in forme differenti da quelle che tutti possono riconoscere. E questo è uno degli interrogativi principali sulla sua carriera fin qui: per affermarsi davvero come giocatore dal talento superiore, Insigne avrebbe bisogno di dimostrare di poter essere efficace anche in altri contesti – tattici e ambientali. Ma non riesce mai a uscire dal suo guscio. È un limite che arriva dalla rigidità del sistema in cui gioca, ma anche dalla ripetitività con cui continua a fare tanto le cose positive quanto gli errori che non riesce mai a correggere.

Il primo a capire l’equivoco è Carlo Ancelotti, che prova a portare il 24 fuori dalla sua comfort zone, geografica e psicologica. È un cambiamento che gli viene richiesto, come parte di una trasformazione che interessa tutta la squadra. Ancelotti vuole ridisegnare il Napoli secondo un calcio liquido ed equilibrato, in cui tutti sono più responsabilizzati a livello individuale.

Una gigantesca occasione persa

In un primo momento Insigne sembra rispondere positivamente. Gioca da attaccante centrale al fianco di un’altra punta e viene sgravato da alcuni compiti di creazione. Anzi, diventa soprattutto un finalizzatore, arrivando a calciare da zone prima inesplorate. Diventa soprattutto più efficiente: prende meno tiri, prende tiri migliori, li converte più facilmente. Sembra aver superato uno dei grandi limiti che lo ha accompagna da tutta la carriera: ha sempre calciato moltissimo e con scelte rivedibili (non ha mai superato il numero di xG con i gol fatti nell’arco di una singola stagione).

Finalmente sembra poter diventare un attaccante completo, in grado di giocare in più modi e di essere efficace in più contesti. Non ha bisogno di toccare una mole enorme di palloni, spreca meno conclusioni, non si limita a entrare in area dal corridoio di sinistra. In più fa giocate, in senso tecnico, che prima non aveva la possibilità di fare, anche semplicemente perché si trova a muoversi in altri punti del campo. Segna sette gol nelle prime 11 partite di campionato e tre nel girone Champions, oltre a sembrare un giocatore completamente nuovo.

Il momento positivo, però, dura solo fino a dicembre. Nella seconda metà della scorsa stagione il rendimento di squadra cala e Insigne è il primo a sbiadire: solo tre gol nel girone di ritorno. Non regge quel livello di prestazioni, sembra smarrito e Ancelotti prova a recuperarlo riportandolo sull’esterno per recuperare le certezze perdute. Privo di riferimenti certi, in una squadra senza meccanismi offensivi fissi, ha perso presto sicurezza e non è riuscito a dimostrare capacità di lettura del gioco che ci si aspettava da lui (sbagliando, a questo punto).

Tornare nella comfort zone

Il fallimento della gestione Ancelotti, di tutta la sua avventura a Napoli, ha in Insigne la rappresentazione più evidente: il tecnico ha provato a responsabilizzare i suoi giocatori, a portarli a un livello superiore – vista come unica possibilità di migliorare i risultati di una squadra che non ha modificato la sua rosa – dando loro maggiori libertà rispetto al passato, ma chiedendo in cambio di alzare il livello di tecnica e imprevedibilità. Il progetto è naufragato proprio perché, a partire dagli uomini più rappresentativi, la rosa non ha saputo fare quell’upgrade richiesto.

Poi con l’arrivo di Gattuso e la restaurazione del sistema pre-Ancelotti, Insigne è tornato a fare quel che ha sempre fatto, almeno in teoria. È tornato nella sua comfort zone, laddove ha le sue certezze, laddove non gli è richiesto di fare nulla più di quel che ormai non riesca a fare con il pilota automatico. I limiti che hanno trattenuto Insigne a un livello più basso di quel che avrebbe, probabilmente, meritato sono chiaramente tattici e tecnici, ma anche di maturità, dell’atleta e dello sportivo professionista, prima ancora che del calciatore o (in senso ancor più riduttivo) dell’attaccante. Una maturità che non è riuscito a dimostrare del tutto. Il capitano del Napoli non ha saputo portare in campo un livello superiore di consapevolezza, di attitudine, di sicurezza quando gli è stato richiesto, quando gli sono state affidate nuove responsabilità. Sia a livello tattico sia a livello umano (con la coincidenza del crollo del rendimento della squadra nel momento in cui eredita da Hamsik la fascia, da febbraio 2019). Dimostrando una fragilità che in qualche modo ritorna sotto diverse forme nella sua carriera. Il suo lasciapassare per la definitiva maturazione doveva essere la rivoluzione tecnica e umana che Ancelotti voleva portare a Napoli: probabilmente l’ultima possibilità di fare quello step che manca nella sua carriera. Uno step che difficilmente arriverà adesso, lasciando una sensazione di incompiutezza.

Fonte: Rivistaundici.com

Sartoria Italiana
Vesux

I Am Naples Testata Giornalistica - aut. Tribunale di Napoli n. 33 del 30/03/2011 Editore: Francesco Cortese - Andrea Bozzo Direttore responsabile: Ciro Troise © 2021 IamNaples
Salvo accordi scritti, la collaborazione con questo blog è da considerarsi del tutto gratuita e non retribuita. In nessun caso si garantisce la restituzione dei materiali inviati. Del contenuto degli articoli e degli annunci pubblicitari sono legalmente responsabili i singoli autori. - Tutti i diritti riservati Vietata la riproduzione parziale o totale dei contenuti di questo portale Tutti i contenuti di IamNaples possono essere utilizzati a patto di citare sempre IamNaples.it come fonte ed inserire un link o un collegamento visibile a www.iamnaples.it oppure al link dell'articolo.