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Diario di un’anima perduta: squadra senza reazione e “colore”, che fine ha fatto il Napoli?

In tanti match importanti per i tifosi la squadra ha dimostrato apatia e mancanza di carattere, oggi ha perso anche il suo colore caratteristico nelle sfide interne, l'azzurro

“No, Napoli! Perdere così proprio no, contro di loro poi…” Frase ormai divenuta déjà vu d’annata di una stagione che nonostante tutto può ancora esser salvata e divenire storica con la conquista dell’Europa League e della Coppa Italia. Cinque punti in sei partite sono la punta di un iceberg di una crisi profonda che si alimenta dal San Mames, a Bilbao, che ha mascherato se stessa ma che come un demone oscuro che grava sulle spalle di tutti ha fatto sentire, gravoso, il suo peso ad ogni minimo ostacolo. Di eventi positivi, ad oggi 5 Aprile 2015, ne contiamo sulle dita di una mano, molti di più quelli negativi che a volte sono andati anche oltre la sfera prettamente sportiva. E’ pur sempre vero che i bilanci vanno fatti alla fine e che chi scrive oggi rischia inevitabilmente di esser smentito nelle ore successive ma un’analisi del momento va fatta, è giusto porsi delle domande e cercare risposte che esulino dal puro discorso tattico e tecnico. Alla gente piace parlare di calcio, come allo stesso tempo piace sentirsi allenatore ogni domenica, su ogni cambio, ogni scelta tattica, ci sarà sempre qualcuno che avrà da ridire perché, a volte, nemmeno il campo mette tutti d’accordo. Il Napoli non è a 23 punti dalla prima in classifica, al sesto posto e (momentaneamente) fuori da ogni piazzamento valido per la partecipazione ad una competizione europea per colpa del modulo, del 4-2-3-1, o per demeriti di Benitez e delle sue scelte, o delle prestazioni dei calciatori, oppure delle opinabili scelte societari. Forse però sarebbe più corretto dire che il Napoli è lì per tutte queste cose e che ha, a differenza di quanto si legge e si ascolta dalle conferenze stampa e dalle interviste dei principali protagonisti, i punti che merita. Trovare però un solo colpevole non è costruttivo, ma solo distruttivo, lo si è fatto prima con Insigne, poi con Rafael, con Hamsik ed infine oggi con Benitez, il problema è più complesso. Quand’è che ha pienamente convinto questa squadra? In una partita forse, la sfida d’andata contro la Roma vinta per 2 a 0, l’immagine di ciò che poteva essere e non è stato e difficilmente sarà perché una squadra che non è mai andata, storicamente, oltre le 5 vittorie consecutive, difficilmente può cominciare a trovare continuità nei risultati e nella partita stessa in una stagione caratterizzata dalla mancanza d’equilibrio. Ma il Napoli non è una grande, no. Lo è per la passione dei tifosi, per il bacino d’utenza, ma una squadra che è stata, in 89 anni di storia personale, realmente vincente per un solo lustro non può esser considerata una big del calcio mondiale come qualche volta, per errore, la si considera. Napoli ha tradizione, ha una storia caratterizzata da una forte identità ma (scriverò una cosa altamente impopolare) non può esser messa allo stesso tavolo, in Italia, di Juventus, Milan ed Inter. Al contrario però di molti altri club ha tutte le carte in regola per potersi sedere ma non sfrutta quelle che sono le sue potenzialità, una su tutte, l’identità. Un Napoli grande va costruito sull’identità, sul gruppo compatto e unito e non su solisti di spessore ma alienati dal contesto. La gente di Napoli ha un’anima, la città di Napoli ha un’anima, riconoscibile, reale, concreta, tangibile per certi versi e se c’è una squadra che storicamente si è riconosciuta con la sua gente questa è proprio quella azzurra, come accade con l’Athletic Bilbao, la squadra di Benitez invece è l’esatto opposto, non reagisce, incassa, appare a tratti intollerante e apatica, cosa che la gente non accetta. Si può perdere contro tutti ma le sconfitte (o le brutte prestazioni) contro squadre come Atalanta, Verona, Roma e Juventus, nei modi in cui queste sono avvenute non sono giustificabili. Passi, forse, solo quella con i bianconeri in cui ha inciso anche un’infelice direzione di Tagliavento, ma su campi che sono l’emblema della discriminazione territoriale nei confronti del popolo partenopeo veder (non) rispondere la squadra in quel modo genera ferite profonde nello spirito dei tifosi. Il tema dell’anima perduta è venuto spesso alla ribalta negli anni azzurri, fu Mazzarri l’ultimo a parlarne, nella sua conferenza stampa di presentazione, dopo l’esonero di Donadoni, le sue parole furono seguite da una reazione della squadra, tecnica ma soprattutto caratteriale, e anche con Reja gli azzurri erano famosi per vincere spesso le partite all’ultimo minuto senza mollare nessuno dei centimetri che dividono la vittoria dalla sconfitta. Non è il momento di far confronti, né di lasciarsi trasportare da facili sentimenti nostalgici di un passato recente che, in fondo, non si è discostato troppo dai risultati sportivi della gestione attuale. E’ però il momento di, per chiunque ne fosse in possesso, tirar fuori l’anima e il carattere, di rendere di nuovo Napoli e i napoletani orgogliosi di una squadra che pur avendo vinto “solo” due scudetti in quasi 90 anni di storia non è stata mai lasciata sola dalla sua gente, ma siamo sicuri che oggi i tifosi sentano loro questa squadra? Oggi il sentimento di apatia è forte, la rosa è apolide e con un solo napoletano in gruppo si sta lentamente spersonalizzando, perfino lo storico colore azzurro sembra non esserci più, lasciandosi trasportare da occasionali scelte di marketing si è passati dal giallo al Jeans per le sfide di Fuorigrotta. Il Napoli è dei tifosi, lo è sempre stato, oggi però è ben lontano dal rappresentare una città a cui basta realmente poco per inondare di nuovo di passione lo stadio San Paolo.

Andrea Cardone

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