Uno dei migliori amici di Ciro Esposito, Francesco Filiù, titolare di un Bar ad Aversa e tifoso del Napoli, ha rilasciato una toccante intervista ai colleghi de Il Mattino. Ecco quanto individuato da IamNaples.it: Con te aveva un’amicizia vera: vacanze, allegria e calcio. «Fino a quel maledetto giorno. Il mio palazzo è proprio di fronte a quello dove abitava Ciro. Siamo cresciuti insieme, io, lui e il fratello Pasquale. Un percorso di vita comune, sin dalla scuola. Ho dormito e mangiato a casa sua quasi quanto è accaduto da mia madre. Dividevamo tutto. A me, a Ciro e a suo zio Bruno ci chiamavano “i tre moschettieri” o “i trettre”.Ciro aveva un legame fortissimo con suo zio, morto anch’egli poco dopo forse anche per il dolore per il nipote». Ciro Esposito era come è stato dipinto, un ragazzo solare? «Era un trascinatore, una locomotiva. Un ragazzo di cuore, allegro, generoso, altruista. Non mi ha stupito che sia andato a difendere i tifosi assiepati nel pullman. Ed era innamorato del Napoli. Abbiamo visto centinaia di partite insieme, a Londra, per la gara con l’Arsenal, pianse perché perse il biglietto. Se penso che è morto per il calcio mi viene una rabbia». Il calcio, il Napoli,non sono più una passione per te? «Non lo so, è cambiato tutto. Resto tifoso del Napoli, ma da quel giorno non sono mai più andato allo stadio, non so se mai ci tornerò. Volevo andare a vedere Napoli-Roma, ma ero troppo arrabbiato, troppo teso, troppo provato». A un anno di distanza quale è il sentimento che prevale? «È una tragedia che a me ha cambiato la vita. Un dolore così forte non l’avevo mai provato, mi manca terribilmente. Ho ancora il suo numero sul cellulare, non lo cancellerò mai.Vedersi ogni giorno e poi nulla più…è stato un dolore immenso. Non sono l’unico e non sarò l’ultimo, ma mi sento svuotato». Un anno dopo invece cosa è rimasto di quanto accaduto? «Mi fa vedere tutte le cose sotto un altro punto di vista. Non riesco a concepire quanto successo: perché dopo una partita di calcio non dovremmo andare, con i tifosi avversari, a mangiare insieme? Lo sport è un mezzo di incontro, l’odio invece viene da dentro e va oltre, non è per il calcio. L’Italia è una terra piena di odio: se vado a Verona o a Bergamo vengo trattato male, perché?». Tra poco inizia il processo: tutti invocano giustizia. «Anche questo mi procura rabbia. Tutti sanno tutto, tutto pare ovvio e chiaro, l’agguato al pullman premeditato, ma ancora non si arriva ad un provvedimento. Sono certo che se avessimo sparato io o Ciro, per esempio, stavamo già in carcere. Per altri,invece, non accade. Come mai?» Il 3 maggio 2014 resterà un giorno che non dimenticherai mai? «Quanto accaduto, le immagini terribili, le notizie imprecise. E poi i 53 giorni infernali successivi. Affittai una stanza dalle monache, sono stato una settimana vicino a lui, e poi sono andato a trovarlo tantissime volte. Ho parlato con lui, ho scherzato, non pensavo finisse così. Abbiamo visto diverse partite del Mondiale insieme. Mi chiamava “avvocato”e una delle ultime volte mi rispose al telefono e mi sorprese dicendomi: “Avvoca’ mi hanno sparato, mica mi hanno tagliato la lingua…”. Per diversi giorni è stato lucido». Pensi che quanto avvenuto a Ciro servirà a qualcosa? «No. Nella nostra società non si dà valore alla vita. Se volessero tutelare i tifosi dovrebbero chiudere gli stadi e non è possibile, né giusto. Questa tragedia ha segnato solo chi, come me, ha amato Ciro. Purtroppo in Italia non c’è senso civico e io ho perso fiducia nello Stato».
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