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Brasile 2014 – Il Film dei Mondiali: Independence Day

Dopo gli ottavi di finale è sempre più Sudamerica contro Europa per la conquista della coppa del Mondo, a poche ore dall'inizio dei quarti di finale una panoramica sulle squadre ancora in corsa

4 Luglio 1776, il giorno dell’Indipendenza degli Stati Uniti delle 13 colonie e della Dichiarazione redatta dalla commissione dei 5. Non sono 13 le colonie del calcio mondiale, sono 8, Brasile, Colombia, Germania, Francia, Olanda, Costarica, Belgio e Argentina a contendersi la ventesima finale dei mondiali, dal 1930 ad oggi, 9 con la coppa Rimet, 11 con la coppa del Mondo, ognuno alla “…ricerca della felicità”, della sua felicità celata in centro metri di rettangolo verde, sempre più prigionieri di un oceano, l’Atlantico, che divide Europa e America, come lo è sempre stato, il calcio passa da lì e ricomincia il 4 luglio 2014, il giorno dei quarti di finale, manifesto del football contemporaneo e <<[…] dovrebbe esser festeggiato con pompe e parate, con spettacoli, giochi, sport, spari, campane, falò ed illuminazioni, da un’estremità di questo continente all’altra, oggi e per sempre.>> (Letter from John Adams to Abigail Adams).

“L’Ultimo dei Mohicani” (di Michael Mann, 1992)

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Scrivi Brasile e leggi Neymar, l’ultima cresta rimasta, sempre meno una forzatura letteraria, sempre meno la volontà di scrivere un film, sempre più realtà, del solo e unico trascinatore dei carioca che vanno a pochi centimetri da un nuovo dramma a poco più di mezzo secolo di distanza dal Maracanaço, con Sanchez e Pinilla reincarnatisi per un istante in Schiaffino e Ghiggia, attimo che gela Belo Horizonte, fino alla traversa, che risveglia l’animo carioca alla ricerca di segni dal destino, in Neymar, rosa nel deserto carioca, lampo di un cielo che si è svegliato improvvisamente grigio, con la paura di non farcela, di vivere una nuova tragedia dopo la prima, semplicemente ascoltata, origliata, nei racconti dei padri, come un sussurro eternamente presente in ogni centimetro cubico d’aria del Brasile, questa volta però sul campo, da protagonisti, letteralmente un mondo sulle spalle… e non sentirlo se porti il numero 10, o il numero 12, dell’uomo del destino verdeoro, Julio Cesar, scritto in un freddo pomeriggio al parco di Toronto, dove si allenava parando i tiri dei ragazzini, di nascosto dal club comprando i guanti in negozio per non far sapere che era lì, a preparare quel momento che si è concretizzato sul prato del Mineirão bagnato dalle sue lacrime e dalle tracce tangibili di un nuovo percorso da compiere che passa da Fortaleza e arriva a Rio de Janeiro. 451381298

 

“Uomini di Gloria” (di Edward Zwick, 1989)

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Ne sono pieni Francia e Germania di uomini così,  ciò che resta della vecchia Europa calcistica dopo l’abiura di Spagna, Inghilterra e Italia ancora troppo poco intrinseche di globalizzazione culturale, come invece sono transalpini e tedeschi, miscelate a tecnica e sapori turchi, polacchi e africani che colmano le lacune generazionali. Rincuora dirlo ma son stati più bravi di noi i galletti, in una Ligue 1 che ha vissuto una crisi economica e di identità rispecchiata nella vecchia potenza decaduta dell’Olympique Lyonnais, intervallato dal potere pecuniario di Paris Saint Germain e Monaco, isole a se dell’oceano transalpino, rifondano il loro calcio dall’anno zero del 2010, investendo in stadi e in settori giovanili, al di là di Pogba, fenomeno del nuovo mondo di quelli che un Dio (se esiste) ti manda e tu devi solo far attenzione, riscopre una nuova generazione di talenti, dopo l’abdicazione di Ribery, in Varane, Schneiderlin, Mangala, Griezmann, figli della nazionale Under 20, campione del mondo in Turchia nel 2013, che pur vede assenze illustri in Brasile come Geoffrey Kondogbia e Kurt Zouma, ma un terreno arato e seminato per un futuro tutto da scrivere. Ora la Germania di Joachim Löw, tedesco di Schönau im Schwarzwald, per un quarto di finale da tripla per gli amanti delle scommesse. Die Mannschaft consolidata dalle certezze del blocco Bayern e dal talento straripante di Thomas Müller, lancia di Monaco, l’uomo della gloria del mondiale brasiliano, come Andrè Schürrle, con il goal da prima pagina per eliminare l’Algeria agli over time, nonostante le difficoltà di una difesa che ha lasciato intravedere qualche crepa dopo l’infortunio di Hummels e che si affida ai guanti d’acciaio di Manuel Neuer, portiere e molto oltre, libero aggiunto, arma letale contro il contropiede algerino che va vicino all’impresa, ma il muro tedesco tiene e si affida al talento per riportare il match sui binari giusti, quelli del Maracanã di Rio de Janeiro, passando per la Francia di Deschamps.

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“Via col Vento” (di Victor Fleming, 1939)

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Tra la Zonda e il Pampero trovi loro due, Messi e Di Maria, venti di seleccion,condottieri di un’Argentina dai due volti, lenta nel gioco e nelle idee ma con due frecce di una potenza non comune, veloci, fendenti, letali, come Angel e Lio che si reincarnano in Eracle e Iolao per far fuori l’idra Svizzera aiutati da un destino crudele e beffardo, che nega la gioia elvetica per pochi centimetri ma lascia tracce nel destino albiceleste ad un’Argentina che stenta a decollare, con Higuaìn fantasma dell’opera che Messi continua a scrivere in gran parte da solo. Ora il Belgio e il primo attacco vero a fronteggiare Fernandez e Garay, con l’aiuto di Mascherano ovviamente e con un Romero in grande spolvero che mantiene in piedi la baracca, arredata a grand hotel nelle scelte offensive, povera e di seconda mano in retroguardia. Ma fin’ora è bastato, perché fin’ora il vento ha spinto dall’Argentina, lasciando per strada segnali da un futuro che molti vedono già scritto, trascinata e presa per i capelli da Messi che deve scalare l’ultimo proibitivo gradino per il confronto col Diez della storia, con buona pace di Pele, fiamminghi permettendo, ovvio.

“Revolution” (di Hugh Hudson, 1985) 

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Rivoluzione Olanda, rivoluzione Louis Van Gaal, generale e profeta, domatore dei Leoni d’Oranje, in campo come il mondo non li aveva mai visti, 3-4-3, 5-3-2, 4-2-4, 4-3-3, a volte nella stessa partita, come contro il Messico, da noche del Diez per i verdi di El Tri a nacht van tien, quello di Wesley Sneijder, rinato dal destro che frantuma il muro di Ochoa, poi il solito straripante Arjen Robben che scrive un’altra pagina del suo mondiale con il rigore procurato che Klaas Jan Huntelaar, nei suoi primi minuti brasiliani, trasforma con freddezza, da cacciatore esperto, un colpo preciso per la caduta messicana, condita da Dirk Kuyt che beve alla fontana dell’eterna giovinezza e si ritrova in campo, l’arma che non ti aspetti perché non sai come affrontarla perché è ovunque, attaccante, esterno, centrocampista, ala, tornante, fa tutto e lo fa bene e permette a Van Gaal di trasformarsi nell’Enigmista di Gotham, pardon, di Amsterdam e schierare i suoi uomini come più ritiene opportuno. L’Olanda è senza dubbio la formazione disposta meglio da un punto di vista tattico di questo mondiale, con una potenza di fuoco in attacco straordinaria e la possibilità di essere camaleontica a seconda dell’avversario e con un vecchio santone del gioco in panchina che ha dimostrato di saperne una più del diavolo rivoluzionando il calcio dei Paesi Bassi, nuotando controcorrente nelle acque Oranje per una strada che sembra spianata verso le semifinali, con la Costarica nell’obiettivo dei cannoni dell’Olandese Volante.

“Il Nuovo Mondo” (di Terrence Malick, 2005)

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Andiamo un po’ a ripetercelo ormai ma siamo probabilmente rimasti tutti affascinati dalle incredibili storie di Belgio e Colombia che una parte della nostra coscienza spera di vederle eliminare proprio Brasile e Argentina, le favorite, probabilmente più per blasone storico che per quello mostrato sul terreno di gioco. Similitudini tra i Cafeteros e i Fiamminghi ce ne sono e molte, un numero 10 sulla quale aggrapparsi nei momenti di difficoltà, Eden Hazard e James Rodriguez, vero mattatore del mondiale brasiliano e autore probabilmente del goal più bello della manifestazione fin’ora, contro l’Uruguay, e una serie di giovani ragazzi terribili, una classe di talenti fioriti qui e lì nei campi di mezzo mondo, con la giusta dose di follia mista a genialità che li rende imprevedibili. Non saremo blasfemi a definire la Colombia, assieme all’Olanda probabilmente, come la formazione più convincente e con maggiore continuità di risultati e prestazioni del torneo e con una solidità difensiva inaspettata, poi la classe, straordinaria, di Rodriguez, la velocità di Ibarbo, Cuadrado e Zuniga, un mix esplosivo proprio della cultura latina, nel ritmo della danza colombiana, della Cumbia o del Bunde, ispirato da Pablo Armero e scenografia di ogni goal colombiano. Poi il Belgio, che ha un fascino diverso, di epoca romantica, da un talento per certi versi offensivo e sfoggiato a ritmi alterni da questi bohèmien fiamminghi e valloni, artistici e arroganti nel tocco di palla ma capaci di trasformarsi in diavoli terribili in pochi minuti e girare nel proprio verso la partita, come Hazard, metafora perfetta, capace di 80 minuti di silenzio e 10 di bellezza futuristica di velocità, tecnica e dinamismo, sintesi del talento di Mertens e Origi, con Witsel e Fellaini giganti sensibili, colonne del centrocampo a tutela del baluardo difensivo erto da Van Buyten e Kompany difeso in estremo dai guanti di Courtois, squadra completa ma discontinua, capace di momenti di depressione calcistica ad altri da manifesto artistico nel giro di pochi minuti, storia della partita contro gli Stati Uniti che vedono il ritorno al goal di Lukaku, bomber atteso, ennesima freccia per l’arco di Wilmots.

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“La Più Grande Avventura” (di John Ford, 1939)

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La favola del mondiale viene scritta a sud-est del Messico, qualche chilometro più in giù del Nicaragua, incastrata in una lingua di terra con Panamà c’è la Costarica. Il premio dei quarti di finale dopo il girone dantesco con Italia, Uruguay e Inghilterra, vinto con merito, subendo un solo goal, su calcio di rigore, poi la tenace Grecia di Fernando Santos che cede dagli undici metri. Difesa solida, tanta corsa e ripartenze, una storia che in un frammento di terra a forma di stivale dovrebbe esser familiare e che troppo facilmente è stata rinnegata, il tutto condito dall’ennesimo numero 10, quello di Bryan Ruiz, una vita tra premier ed eredivisie fino alle luci della ribalta carioca che lo ripropongono in prima fila assieme al nome di Bolaños, eroe per caso dalle traiettorie impreviste, e di Joel Campbell, freccia dell’Arsenal passando per l’Olympiakos e pronto a colpire anche col rosso dei Gunners. Ora la sfida più difficile, l’Olanda di Van Gaal, con la leggerezza di chi il suo mondiale in parte l’ha già vinto, passando dall’ordinario allo straordinario, sotto la guida di Pinto che sogna lo scherzo ai leoni d’Oranje per un sogno, l’ennesimo, che i Los Ticos vogliono continuare a vivere.

 

 

 

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