Avete letto 1984 di George Orwell? Basterebbe domandarvi “cos’è il Grande Fratello?”, sperando che la vostra prima risposta non sia “ah, il programma della Mediaset!”. No, a parte gli scherzi, la domanda su 1984 serve ad introdurre un concetto molto interessante che ricorre spesso e volentieri nel masterpiece di Orwell: l’uso delle parole e il suo significato. Pensiamo ad esempio, sempre restando nel distopico mondo orwelliano, al Ministry of Truth (Ministero della Verità), ossia il luogo dove venivano manipolate le notizie e il passato al fine di renderlo gradito al regime. Si confezionano chiaramente delle bugie, si manipola la realtà, si omette l’evidenza, eppure c’è l’uso della parola “verità”.
Si, lo so. In questo preciso momento quasi la totalità di voi starà pensando “questo dove vuole andare a parare!”. Un momento e ci arriviamo. Avete notato l’uso di una parola per dire l’esatto opposto. Bene, ora pensate alle parole “missioni di pace” e “Spending review”. Suonano rassicuranti, molto più di “guerra” e “tagli al sociale”, non è vero? Anzi, addirittura sembrano conferire qualcosa di “giusto” ad azioni ed eventi che altrimenti valuteremmo in modo senz’altro negativo.
Bene, abbiamo visto come la stessa azione può essere vista sotto una luce diversa a seconda del termine (o dei termini) che si utilizzano per descriverla. Ora prendiamo queste tre parole: “razzismo”, “discriminazione territoriale” e “sfottò”. La prima è deprecabile, la seconda da tanto l’idea di qualcosa di giuridicamente rilevante (ma forse neanche tanto), la terza (sarà forse per quell’accento finale) sembra addirittura una cosa positiva. Tutte e tre questi termini servono in realtà per descrivere la stessa identica cosa: i cori contro i napoletani.
Spesso il razzismo (per me i cori anti-Napoli sono razzismo!) è più nelle orecchie di chi sente che nella voce di chi grida. Mi spiego meglio. Se io, abituato da un determinato modus pensandi a considerare determinate parole come non-offensive, non proverò il minimo sdegno, in quanto per me il razzismo neanche sussiste. Semplice, no? Il problema si presente semmai quando, anche di fronte ad una platea che considera tali espressioni come razziste, chi di dovere decide di “declassarle” sia dal punto di vista giuridico che del punto di vista mediatico.
Lo so, il discorso potrebbe cominciare ad essere spigoloso, ma ripercorrendo gli ultimi due anni di razzismo anti-Napoli, il tutto apparirà più chiaro. Partiamo dal presupposto che queste manifestazioni di intolleranza verso i napoletani esistono da diverso tempo. Addirittura mio nonno mi parlava di come il suo servizio militare a Cuneo fosse costellato da continui insulti (con annesse risse, naturalmente vinte) da parte dei commilitoni settentrionali. Ora, indagare l’origine di questo “odio” nei confronti dei napoletani non è compito mio, ma constatare come questo non sia un fenomeno recente è utile ai fini dell’articolo. Per diverso tempo questi comportamenti sono stati accettati, tollerati e, purtroppo, non combattuti dagli stessi napoletani. Poi, qualcosa cambia, e man mano il modus pensandi napoletano comincia a rendersi conto della gravità di questi cori.
Il punto cruciale della vicenda è lo scorso anno. La Uefa (se aspettavamo l’Italia…) impone, visto il crescente clima di intolleranza negli stadi del Vecchio Continente, alla varie federazioni nazionali il pugno duro sul fronte razzismo. Si scopre che in Italia ci sarebbe anche una norma atta a punire i cori contro i napoletani, ma che semplicemente nessuno l’aveva mai preso in considerazione. Adesso invece “Ce lo chiede l’Europa (quella calcistica)”. Così la scorsa stagione i vari “colerosi”, “lavali col fuoco”, “Vesuvio pensaci tu” , bla bla bla bla… cominciano finalmente a venire puniti.
Apriti cielo Già, perché a questo punto diventa dura far accettare a gente abituata a considerare normali certi cori che i suddetti cori sono offensivi e razzisti. Ma dura lex sed lex, e quindi si cominciano a chiudere le curve, e le stesse tv e gli stessi giornali iniziano ad interessarsi e a condannare queste manifestazioni di odio. Dall’altro lato però c’è chi invoca la “libertà d’insulto”. “Sono solo sfottò”, e qui torniamo al significato delle parole. Il “colerosi” per una parte del paese è razzismo, per l’altra semplice sfottò. Il “colerosi” è sempre “colerosi”, ma per alcuni è grave, per altri meno. E peggio si fa quando si crea un nuovo neologismo: la famosa discriminazione territoriale. Il “colerosi” non è grave o non grave, è sempre grave, ma meno grave di altre cose più gravi. Cioè, in parole povere, non dite “colerosi”, ma se lo dite non è poi una così grande tragedia. Un tantino da ignavi, non trovate?
Ed è proprio su questo ultimo termine che la questione diventa spinosa. Con “discriminazione territoriale”, si inizia a distinguere un razzismo di serie A da un altro di serie B. il primo è da condannare, il secondo al limite si può anche tollerare. E su questa base, su questa scissione tra insulto grave (il razzismo) e insulto non grave (la discriminazione territoriale) che il prode Tavecchio (eletto anche e soprattutto grazie all’appoggio di De Laurentiis, do you remember presidè?) può, con un gesto da far invidia a Ponzio Pilato, proclamare solennemente il ritorno al libero insulto nei confronti dei napoletani. Per la gioia delle festanti masse italiane, ora punite solo con misere multe (20mila euro, massimo 30mila).
Ce ne saremmo anche fatti una ragione (no, scherzo, non ce ne faremo mai una ragione!), se non fosse per il fatto che questa nuova ondata di “accettazione” nei confronti degli insulti ai napoletani sta coinvolgendo gli stessi napoletani. Beh, se le nuove linee di pensiero sono portate a spingere per attenuare la gravità di un “colerosi”, è normale che anche una parte del popolo napoletano, prima o poi, finisca per accettare di nuovo questo pensiero. Ed ecco che ci troviamo di fronte a frasi, dette da napoletani, del tipo “non facciamo i vittimisti” o ancora “noi siamo superiori”. Permettete: ma superiori in cosa? Nel farsi insultare. No grazie! Non basta certo un cambio di parole, o un neologismo ben studiato, per cambiare l’evidenza. Il “colerosi” è sempre “colerosi”, così come le invocazioni al Vesuvio, possono anche essere etichettate come “preghiere domenicali”, ma sempre invocazioni allo sterminio di un popolo restano. Potete giocare quanto volete sulla forma, ma la sostanza è immutabile. Se poi, in un paese in cui la forma è tutto, è solo l’ennesima scusa per lavarvi le mani, o peggio ancora per essere dalla parte sbagliata, fate pure. Di certo noi non vi auguriamo di farlo con la lava del Vesuvio mentre vi diciamo che è “sapone igienizzante”.
Servizio a cura di Giancarlo Di Stadio
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