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”SaveParma”, il grido di chi guarda in silenzio i fallimenti nelle categorie inferiori‏

Per il Parma c'è stata una grande mobilitazione per impedire il fallimento, mentre c'è solo silenzio sui fallimenti nelle categorie inferiori

“Save Parma” o, se preferite qualcosa di più social, #SaveParmaQuante volte in questi ultimi mesi l’abbiamo visto e sentito. Appelli disperati, grida di dolore per salvare il club emiliano. Servizi sul valore morale dei calciatori, sulla composta fermezza dei tifosi. Poveri tifosi, poveri calciatori. Sappiamo e abbiamo sentito parlare del loro “eroismo” nel condurre in porto una barca ormai affondata.

Bello, al limite del commovente. Speriamo anche nel lieto fine, nella storia che ti fa scendere prima la lacrimuccia e poi spuntare il sorriso. Peccato solo che di Parma nel calcio italiano ce ne siamo molti, e di “#Save” davvero pochi. Troppo facile scomodare i fallimenti di, solo per citarne alcuni, Napoli, Torino e Fiorentina (la quale fu poi “ripagata” con un doppio salto di categoria per “meriti sportivi”). Troppo facile parlare di come, tutti coloro pronti a strapparsi le vesti per salvare il Parma, non mossero un dito allora e, parere personale, non lo muoverebbero neanche oggi se al gialloblù togli il giallo e schiarisci il blu.

Ma non voglio parlare di questi casi noti che, seppur con esiti differenti, ebbero la loro copertura mediatica. No, voglio parlare di quei fallimenti che si consumano in silenzio, senza interviste sui quotidiani nazionali o telecamere dei tg fuori le sedi sportiveParlo delle squadre di Lega Pro, dei dilettanti, dell’Eccellenza. Di quei bollettini di guerra che, ad ogni finale di stagione, ridisegnano, tra esclusioni, mancate iscrizioni e ripescaggi, i verdetti dei campi.

Al di sotto del secondo livello calcistico italiano non c’è la copertura mediatica e l’indignazione che accompagna il fallimento del Parma, e non ci sono neanche tv satellitari che impongono diktat per far finire le stagioni. In Lega Pro e dilettanti, salvo rare eccezioni e soprattutto nei gironi meridionali, il ciclo vitale medio di una squadra è sui 6-7 anni. Si parte con entusiasmo, buoni risultati e poi, ai primi problemi economici il crack. E via con i fallimenti, le fusioni, le acquisizioni di titoli sportivi, cambi di denominazioni e quant’altro.

E a pagare? Tifosi e calciatori. I primi, nonostante certe volte appartengano a piazze ben più numerose di un Sassuolo o un Chievo, costretti a vivere “alla stagione”. Oggi tifi, domani chi sa. Sempre in un limbo calcistico che impedisce loro il più elementare dei bisogni di un tifoso: sognare. E non dimentichiamoci dei calciatori, non quelli twittatori, con le loro facce stampate sulle figurine o sui teleschermi del prime time calcistico. No, parliamo di quelli che prendono poco più di un operaio specializzato (quando lo stipendio lo prendono e se lo prendono). Quelli per cui non c’è il procuratore che, male che va, ti piazza in uno scambio alla pari o in un prestito con diritto di riscatto nelle ultime ore di calciomercato. No, parliamo di quelli che, se fallisce la squadra, fallisci insieme a loro. E se di squadra vuoi trovarne un’altra ti arrangi da solo.

Il problema è essenzialmente strutturale. Adesso a tenere banco è il caso del Parma. La società è praticamente fallita, ma la si fa continuare a giocare, in attesa di un compratore (magari con la garanzia della B il prossimo anno). Tutto in una sorta di “salvare la apparenze”, o meglio salvare il campionato a 20 squadre. E dietro questa maschera di regolarità il silenzio sul fatto che la società nei fatti fosse sull’orlo del fallimento già da diversi anni. I quasi 300 tesserati, le scadenze Irpef non rispettate (che provocarono la giusta esclusione dall’Europa League) non erano campanelli d’allarme sufficienti per i palazzi del calcio? O, volendo pensare male, pur sapendo la situazione s’è deciso di chiudere un occhio? In definitiva, perché s’è permesso ad una squadra come il Parma di cominciarla la stagione facendo finta che andasse tutto bene?

Non dimentichiamoci che il Parma è stato sull’orlo del fallimento già una volta, quando si tolse il coperchio alle poco limpide operazioni finanziarie dei Tanzi (che avevano portato, con quei soldi, il Parma ai vertici del calcio europeo). Allora fu consentito il salvataggio a Ghirardi. Lo stesso Ghirardi che, in coppia con Leonardi, ha portato il Parma ad un nuovo punto di (si fa per dire) non ritorno, in soli 10 anni. Ma sia allora che oggi il calcio italiano tende una mano nei confronti del Parma. Mano che nelle categorie minori non s’è mai vista.

Chiariamoci, nulla contro il Parma, il discorso, come sempre, è più generale. Non guardate il dito, ma la luna che sta indicando. Perché se il Parma è “#Save” e il resto no vuol dire che in questo calcio italiano c’è qualcosa di profondamente malato. La morbosa attenzione nel moltiplicare i ricavi delle big (intese come tutte le società di A) si accompagna ad un progressivo disinteresse nei confronti di tutte le società dalla Lega Pro in giù. Tutele per le big e massimo disinteresse per chi big non è (anche se allo stadio porta il doppio dei tifosi di un club di A).

Strutture, merchandising, fondi di solidarietà, premi per la valorizzazione dei giovani, entrate “paracadute” (come per le società che dalla Premier retrocedono in Championship). Tutte belle parole che nella realtà dei fatti non trovano alcun riscontro. Discorsi seri sulla multiproprietà, sulla creazione di squadre riserve o sulle Primavere in Lega Pro sono, in Italia, campati in aria. Qualcosa neanche lontanamente nell’agenda dei palazzi del pallone. Il business plan, parola tanto di moda ultimamente, sembra essere solo uno: maggiori introiti dai diritti televisivi.

Poi non lamentiamoci se, legittimamente, la fonte della quasi totalità dei ricavi del calcio italiano dice: “Il Parma deve concludere il campionato” … e il calcio italiano supinamente obbedisce.

Servizio a cura di Giancarlo Di Stadio

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