Si chiama Pietro Doca. E un gioielliere di Piacenza, titolare della Doca gioielli, ed è il nuovo presidente del Parma. In realtà molti pensano, e nessuna smentita è ancora arrivata, che Doca non sia altro che il rappresentante legale di una cordata russo-cipriota che ha appena messo le mani sul Parma. O, come dicono altri, il semplice emissario del petroliere albanese TAci, famoso per aver tentato anche altre volte la scalata a società calcistiche italiane. Così, con ben poco “onore” si consuma l’addio di Tommaso Ghirardi, dopo quasi un decennio di presidenza. Un addio con pochi rimpianti, vista la situazione societaria e calcistica dei ducali, con tanto di mancati pagamenti Irpef che avevano reso vana la qualificazione in Europa League ottenuta sul campo dall’undici di Donadoni la scorsa stagione.
Si consuma così l’ennesimo passaggio di proprietà nel calcio italiano. E dopo Roma, Inter e Bologna anche il Parma potrà beneficiare di capitali stranieri. Un bene penseranno dalla parti di Parma. Ma occhio e sedersi sugli allori. Già, perché in Emilia sono purtroppo abituati a presidenti più fumo che arrosto. Lo stesso Ghirardi a sua volta salvò la squadra da un quasi fallimento, imputabile alla non proprio pulita gestione della famiglia Tanzi. A Parma è già la seconda volta che un sogno conquistato sul campo viene infranto da qualcosa che non va nei piani alti della società. Quest’estate il ritorno in Europa è sfumato a causa dei mancati pagamenti Irpef, così come un decennio prima quel fantastico sogno di una squadra di provincia che dalle serie inferiori andava a dominare l’Europa si era rivelato un bluff, un volo pindarico dovuto più ai soldi e alle operazioni finanziarie della Parmalat e dei Tanzi che alle reali potenzialità della piazza.
Voli pindarici, il calcio italiano ne è pieno. Come i magnifici anni ’90, quelli delle sette sorelle. Peccato che oltre al Parma anche la Fiorentina colò a picco assieme ai guai di Cecchi Gori. E Roma e Lazio, che pure vinsero uno Scudetto a testa, si sono salvate, diciamo per miracolo, dal fallimento. Di sette ne sono rimaste tre, e due di esse, Inter e Milan non è che se la passino poi così bene. Le grandi spese morattiane infrante dinanzi al nuovo corso di Eric Thohir. Più marketing e meno cuore, con un portafogli che più che spendere incondizionatamente preferisce prima incassare. E lo stesso dicasi al Milan dove da tempo Berlusconi sembra essersi disimpegnato dal fronte calcistico, costringendo Galliani a mercato all’insegna del parametro zero. Resistono gli Agnelli e, tra mille contraddizioni, risalgono Roma e Napoli. Proprio il Napoli che invece, a differenza di altre, l’onta del fallimento l’ha provato sulla sua pelle dopo un decennio tribolato, costellato dall’annuale vendita dei pezzi migliori per far fronte ad un bilancio povero, in assenza di paperoni pronti a spendere e spandere.
A salvarci oggi sono invece i “nuovi ricchi”. Arabi, americani, russi, cinesi. Pronti ad espandere i loro imperi finanziari anche nel calcio. Perché si sa, il calcio, anche con la crisi, è un settore che tira, che porta soldi e che rende fruttuosi gli investimenti. Ma è davvero ciò che ha bisogno il calcio? Davvero è questo quello di cui il calcio italiano ha bisogno per uscire dalla ormai atavica crisi (prima di tutto tecnico-tattica) che lo attanaglia. Soldi, soldi, altri soldi. Eppure i soldi ci sono, c’erano, e ci saranno. Eppure la Serie A è al vertice delle sponsorizzazioni, le squadra guadagnano capitali con i diritti tv e i prezzi dei biglietti sono, in alcuni settori, sempre più alti.
Si, il calcio moderno ha bisogno di soldi, non nascondiamoci dietro a romantiche ipocrisie. Soldi veri, soldi nuovi. Ha bisogno per non risvegliarsi dal sogno come a fine anni ’90. Ne ha bisogno per non ripetere i voli pindarici di Parma, Fiorentina, Lazio e Roma. Per non illudere, per l’ennesima volta, quei tifosi che volevano credere, e si illudevano, che le proprie squadre fossero forti chi sa per quale virtù e non per un qualcosa di finanziario che alle spalle immetteva vagonate di soldi, fino a scoppiare.
Di soldi ha bisogno il calcio moderno, ma non “Il Calcio”. Ne ha bisogno quel carrozzone che c’è dietro, quella sovrastruttura che lo governa che lo gestisce e che lo manda avanti così come lo conosciamo, ma non lo sport in sé. Non il semplice e puro gioco del pallone. Quello è un affare tra tifosi e giocatori. Disse Bill Schankly, storico allenatore del Liverpool: “In una squadra di calcio c’è una Santissima Trinità: i giocatori, il tecnico e i tifosi. I dirigenti non c’entrano. Loro firmano solo gli assegni!” Una visione romantica, anacronistica, inapplicabile (se mai lo fosse stato) nella realtà, ma che forse ci consente di guardare questo sport con occhi diversi, di commentarlo in modo diverso e non rimanere di stucco di fronte all’ennesimo fallimento di una società o all’ennesima rata dell’Irpef non pagata.
Servizio a cura di Giancarlo Di Stadio
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