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Mondiali ’50 – ”The shot heard around the world”, quando gli Stati Uniti batterono i maestri inglesi del football‏

Il Mondiale torna in Brasile, torna, dopo 64 anni, nella patria del calcio. Nel paese di Pelè, di Ronaldo, di Zico, nella terra deiPentacampeao. Ed è la seconda volta che la massima competizione per nazionali fa tappa nel paese carioca. La prima fu nel 1950. E non mancarono sorprese…

Quello del ’50 fu un Mondiale per certi versi strano. A cinque anni dalla fine della Seconda Guerra Mondiale e con un Europa ancora a pezzi, il Brasile organizzò quella che sarebbe diventata una delle edizioni più celebri, affascinanti e contraddittorie della storia del calcio. Solo 13 i partecipanti, e moltissime le defezioni. Germania e Giappone, sconfitte nella recente guerra, furono estromesse d’ufficio. Sorte simile sarebbe dovuta toccare anche all’Italia, ma grazie ai buoni uffici di Ottorino Barassi, allora vice-presidente Fifa, gli azzurri furono invitati a partecipare. I forfait non riguardarono però solo gli “sconfitti”, ma anche il nascente blocco comunista dell’Est disertò la manifestazione. Sia la temibile Unione Sovietica (che nel giro di 10 anni vincerà l’oro olimpico e l’Europeo), sia l’Ungheria di Puskas, sia la Cecoslovacchia decisero di disertare. Così come fece l’India che, nonostante la vittoria del girone di qualificazione asiatico si ritirò perché non fu consentito ai giocatori di scendere in campo scalzi.

Di fronte a tanti assenti illustri c’era però una presenza di notevole prestigio, quella dell’Inghilterra. Gli inglesi, fin dal primo mondiale, avevano sempre snobbato la competizione, ritenendosi indiscutibilmente superiori sia al calcio danubiano (molto in voga nel primo dopoguerra), sia al calcio latino. Nel ’50 però decisero di mettere da parte questo loro senso di superiorità e di partire per il Brasile per “insegnare” un po’ di calcio al resto del mondo. Gli inglesi superarono le altre Home Nations (Scozia, Galles e Irlanda) nelle qualificazioni e staccarono, abbastanza facilmente, il pass per il Mondiale.

Inutile dirlo, gli inglesi si presentavano da favoriti. Preceduti dalla fama di “maestri del football” si candidavano, assieme ai padroni di casa e ai bi-campioni dell’Uruguay, ad alzare la Coppa Rimet. E neanche il girone si presentava tanto ostico. C’era la Spagna, buona squadra costruita attorno al basco Zarra e al catalano Basora, ma dopo il nulla. Cile e soprattutto Stati Uniti rappresentavano tutt’altro che una seria minaccia. E i giornali dell’epoca erano certi che il Gruppo 2 sarebbe stata una questione anglo-spagnola, con i britannici nettamente favoriti.

Ed infatti la prima giornata confermò i pronostici: Inghilterra-Cile 2-0 e Spagna-Stati Uniti 3-1.  Nella seconda giornata la Spagna liquidò 2-0 il Cile e l’Inghilterra…

Già l’Inghilterra. E qua inizia la nostra storia. L’Inghilterra nella seconda giornata doveva affrontare gli Stati Uniti. Ora, per farvi capire la differenza tra le due nazionali, basti pensare che, mentre ad Albione già da fine ‘800 c’era una lega strutturata su vari livelli, con campionati, coppe ed un organico sistema di promozioni-retrocessioni, negli Stati Uniti il calcio era ancora a livello amatoriale. Anzi, gli Stati Uniti non avevano neanche una vera e propria nazionale. Nelle qualificazioni avevano staccato il pass per il rotto della cuffia, mentre le loro due stelle Jack Hynes e Benny Mc Laughlin restarono a casa, il primo per divergenze con l’allenatore il secondo perché, udite udite, aveva già fissato la data del suo matrimonio!

La Selection Commitee dovette quindi fare di necessità virtù, per reperire, entro l’inizio dei Mondiali, una squadra che, lungi dal poter vincere una partita, potesse almeno evitare di fare brutte figure. L’America calcistica in quel frangente fu salvata da una città, anzi da un quartiere in particolare: The Hill, nella periferia di San Louis. Qui, tra gli immigrati sottopagati che formavano il proletariato americano, gli Stati Uniti trovarono la loro nazionale. Quattro italiani (Borghi, Colombo, Di Iorio e Pariani) e altri sei tra portoghesi, spagnoli e scozzesi. Loro, assieme ad altri statunitensi, provenienti perlopiù da Chicago e Philadelphia, andarono a formare una squadra che, nel suo piccolo, avrebbe fatto la storia.

La storia, quella storia che tutti credevano non esserci contro l’Inghilterra. Gli stessi brasiliani arrivarono allo stadio convinti di assistere ad una goleada. E gli inglesi, convinti del loro successo, neanche si degnarono di schierare la formazione migliore, già proiettati alla gara decisiva contro la Spagna. I cugini d’oltreoceano, quelli tutti basket e baseball, cosa potevano mai capire di calcio. Mica potevano essere capaci di saper muovere una palla con i piedi.

Pronti via e l’Inghilterra sfiora il gol. Dagli spalti e in campo comincia qualche risatina. Preludio di una goleada? A detta di tutti si. Non c’è storia, non c’è mia stata storia. Gli inglesi per quella partita non si sono neanche allenati. Possono battere gli americani ad occhi chiusi.

Eppure il tempo passa, il cronometro scorre e il risultato è di 0-0. Gli inglesi sono increduli: stanno pareggiando con gli Stati Uniti. Non è possibile! Il pubblico brasiliano comincia anche a mugugnare. Sono venuti per assistere ad una goleada ed invece la partita è ancora 0-0. Vuoi vedere che questi americani non sono così scarsi. E gli stessi americani cominciano a pensarlo seriamente, cominciano a credere di uscire indenni da quel match. E, perché no, anche di provare a vincerlo.

Il minuto è il 37’, l’eroe è Joe Gaetjen. Haitiano di Port-au-Prince, diploma di ragioneria e una carriera calcistica iniziata alla Columbia University. E’ lui l’eroe, quello che, al minuto 37, vola più in alto di tutti. E mette la palla in rete. Inghilterra-Stati Uniti 0-1. E pensare che Gaetjen non ha neanche la cittadinanza americana, al Mondiale ci va dopo una piccola diatriba con la FIFA. Non ha la cittadinanza statunitense e non la prenderà mai, concludendo tragicamente la sua vita ad Haiti qualche anno dopo, ucciso dalla polizia segreta del suo paese. In compenso è l’eroe calcistico d’America, quello che fa piangere i cugini spocchiosi d’oltreoceano, quello che sparò “the shot heard around the world”, il colpo sentito il tutto il mondo.

A dire la verità gli inglesi ce la mettono tutta per pareggiare. Loro sono più forti, più talentuosi, più bravi. Ma gli americani sono organizzati. Non hanno cultura calcistica, ma sono organizzati, soprattutto in difesa. La difesa. Ci sono due italiani, anzi due italo-americani. Sono, come detto, di Saint Louis, giocano nella squadra locale. Sono il centrocampista Charlie Colombo e il portiere Franck Borghi. Se gli americani amano il baseball, gli italiani adorano il calcio. E loro non sono da meno. Si rendono protagonisti della tenace resistenza agli assalti inglesi. E ci riescono.

Triplice fischio. Inghilterra-Stati Uniti 0-1

Nessuno ci crede, nessuno ci può credere. Gli inglesi sono attoniti, i brasiliani increduli e stessi americani stupiti. I maestri del footballbattuto da un’accozzaglia di immigrati semi-professionisti. Eppure è così. Gli Stati Uniti battono l’Inghilterra 1-0.

Dall’altro lato dell’oceano arriva la notizia, ma non ci credono. “Non può essere! 0-1, è un errore di trascrizione, ci manca una cifra!” così i giornali inglesi l’indomani titolano “Inghilterra-Stati Uniti 10-1”. Ma nessun errore. L’Inghilterra ha veramente perso, gli Stati Uniti hanno veramente vinto. E l’Inghilterra perderà anche l’ultima gara con la Spagna, chiudendo in modo poco dignitoso il suo primo mondiale. Dall’altro lato anche gli Stati Uniti prenderanno 5 gol dal Cile prima di tornare in patria, tornare a lavorare e a giocare il calcio nel dopo lavoro, per divertirsi, senza impegno e senza soldi, magari giocando prima di andare a vedere gli strapagati atleti del basket e del baseball nei palazzetti strapieni.

Eppure per il movimento calcistico statunitense quella è stata la partita più importante della storia. E quegli undici sconosciuti semi-professionisti degli eroi. Il soccer ha abbattuto il football, e il colpo, “the shot”, è stato sentito in tutto il mondo.

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Servizio a cura di Giancarlo Di Stadio

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