San Nicola di Bari, 1991. In quello che molti definirono “cattedrale nel deserto”, costruito sulle speculazioni di Italia ’90, va in scena la più inedita finale di Coppa Campioni della storia. Si, Coppa Campioni, non si chiama ancora Champions League, e alla competizione partecipano solo le vincitrici dei rispettivi campionati. C’era anche il Napoli, ma fu eliminato dallo Spartak Mosca, a sua volta eliminato in semifinale dal Marsiglia. Ecco, il Marsiglia è la prima finalista. L’altra è la Stella Rossa di Belgrado. Bella squadra: Jugovic, Pancev, Savicevic. La Coppa, naturalmente, la vincono loro ai calci di rigore. In mezzo alla festa c’è anche un ragazzo col la maglia numero 8. Dicono abbia un sinistro formidabile, tanto che dall’altra parte dell’Adriatico l’Università di Belgrado l’ha perfino studiato. Il suo nome è Sinisa Mihajlovic.
Quella sera a Bari Sinisa ha il primo assaggio dell’Italia. Un assaggio dolce, con tanto di coppa alzata al cielo. Ma non si tratta di una toccata e fuga. Mihajlovic in Italia ci resta. La Roma lo adocchia e sborsa 8,5 milioni nell’estate del ’92. Sinisa attraversa un’altra volta l’Adriatico, poco prima che il suo paese, la Jugoslavia, sprofondi nel caos a causa della guerra tra le diverse etnie.
A Roma resta poco, due stagioni fatte di chiaroscuri. Un solo gol in 54 presenze, e così viene ceduto alla Samp. Quello con la città di Roma però è solo un arrivederci, perché, dopo quattro anni ad alto livello in blucerchiato, è la Lazio e mettere gli occhi su di lui. In biancoceleste la definitiva consacrazione. Fa parte di quella grande Lazio capace, tra la fine degli anni ’90 e l’inizio del 2000, di vincere quasi tutto in Italia e in Europa.
A mano a mano che procede la sua carriera Mihajlovic acquisisce sempre più la fama di cecchino infallibile. Il suo sinistro si perfeziona ulteriormente, tanto che, ad ogni punizione a favore, i tifosi della Lazio pregustano già il momento del gol. Su punizione e non solo. Alla Samp erano stati 12 i gol complessivi, alla Lazio ben 20. A fine carriera Mihajlovic avrà segnato ben 97 gol, di cui 28 su calcio di punizione in Serie A (record assoluto!).
Le luci del campo per Sinisa si accompagnano però alle ombre per alcune vicende extracalcistiche. Come detto Mihajlovic va via dalla Jugoslavia poco prima che la guerra divampi. E lui, nei confronti di quella guerra, non assume certo un atteggiamento neutrale. Piaccia o non piaccia, Sinisa si schiera. Appoggia apertamente prima il presidente serbo Milosevic e poi il paramilitare Raznatovic, ex capo ultrà della Stella-Rossa, conosciuto ai più come la Tigre di Arkan, arrivando anche a fare esporre uno striscione ai tifosi della Lazio dopo la sua morte. Controversie che non si fermano qui, anzi. Nel 2003 fu squalificato 8 giornate in Europa per insulti al romeno Mutu in un Lazio-Chalsea di Champions, quando ancora non s’erano spente le polemiche per alcune frasi razziste rivolte qualche anno prima al francese Vieira.
Episodi che mostrano chiaramente il suo carattere poco incline al compromesso. Un atteggiamento, a volte eccessivo e rude, che lo accompagna anche in panchina. La Lazio sull’orlo del fallimento smobilita. E lui va all’Inter dove incontra il suo ex compagno di squadra, ora allenatore dei nerazzurri, Roberto Mancini. Un incontro importante, visto e considerato che è proprio Mancini ad inserirlo nel mondo degli allenatori. Appese le scarpette al chiodo diventa suo vice. Con Mancini vince 3 Scudetti (di cui 2 da vice-allenatore).
E’ il momento di lasciare l’alveare del Mancio. Il Bologna gli offre la panchina in corsa, ma è un’avventura deludente sin dall’inizio. La squadra non decolla e, dopo solo 4 vittorie in 21 gare, la società lo liquida con un “arrivederci e grazie”. Mihajlovic, in ogni caso, non è certo il tipo che si lascia abbattere da un esonero. Sa che l’occasione del riscatto è dietro l’angolo. Precisamente a Catania. Subentra ad Atzori poco prima di Natale. E stavolta nessun esonero. In 23 partite totalizza 36 punti. Il Catania dall’ultimo posto in classifica ottiene una salvezza tranquilla.
Potrebbe restare, ma Catania gli va già stretta. Sogna, come poi accadrà con Simeone e Montella, di utilizzare la Sicilia come trampolino di lancio per la sua carriera da tecnico. L’ombra di Mancini è lontana eSinisa vuole la sua occasione: la Fiorentina. A Firenze si cerca un tecnico che possa far ripartire il progetto dopo l’addio di Prandelli, e i Della Valle decidono di puntare sulla grinta di Mihajlovic. Sinisa si trova così, per la prima volta da solo, alle prese con una realtà non provinciale. La Fiorentina ha ambizioni, buoni giocatori (Montolivo, Jovetic, Ljiaic) e obiettivi importanti. Sinisa altrettanto. Ma, come sempre, tra il dire e il fare c’è un abisso. L’esperienza a Firenze non sarà certo ricordata positivamente dai tifosi viola. I risultati non arrivano e di bel gioco nemmeno l’ombra. Dopo un anno e mezzo le parti si separano con ben pochi rimpianti. Uno scherzo del destino vuole che a rilevarlo sia Delio Rossi, lo stesso Delio Rossi che lui sostituirà alla Samp, ma ci arriveremo.
Mihajlovic a spasso decide di accettare l’offerta della Federazione Serba di allenare la nazionale maggiore. Anche qui l’avventura non è da ricordare. Poche vittorie, una qualificazione ai mondiali sfumata e tantissime polemiche, come quella con il suo ex giocatore Ljiaic riguardo la scelta del giocatore di non cantare l’inno serbo. La Nazionale non fa per lui, meglio tornare in Italia e sperare che qualche club gli dia fiducia. Un club c’è: la Sampdoria. Qui Mihajlovic trova l’ambiente ideale per ogni allenatore. Buona squadra, poche pressioni, una sola competizione da giocare. Il primo anno, in cui rileva Delio Rossi, è buono, il secondo, fino a questo momento, decisamente ottimo.
Porta la Samp dalle soglie della zona retrocessione fino alla, ormai probabile, qualificazione in Europa. Sinisa però, come avrete capito, è ambizioso. La Samp gli sta già stretta e lui progetta di nuovo il grande salto, sperando che non accada come a Firenze. L’ottima stagione alla Samp gli ha procurato molti estimatori, e in tanti spingono per dargli una buona panchina. Domenica è al San Paolo, da avversario. Ma di certo avete sentito tutti che il suo nome è nell’aria per l’eventuale dopo-Benitez. In fondo per cambiare panchina basta solo percorrere una piccola striscia di erba, mica bisogna attraversare di nuovo l’Adriatico.
Servizio a cura di Giancarlo Di Stadio
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